martedì 30 agosto 2022

 non sono,per nulla, solito parlare di politica, men che meno su queste pagine, anche se, in questa tragica congiuntura mondiale , con le elezioni alle porte (dove non è facile trovare qualcuno da votare....) forse si potrebbe fare un'eccezione.

Non la farò......però voglio mettervi nel mood elettorale con la caustica e dolente ironia di Giorgio Gaber.





domenica 21 agosto 2022

Proprio l'altro giorno mi chiedevo come può essere che dopo un paio di mesi di trasmissioni ad ogni ora sulla guerra in Ucraina ormai non se ne parli quasi più.....l'orrore non è finito, continua eppure ci siamo abituati, assuefatti, così come ai disastri causati dal cambiamento climatico, dal razzismo, dalle discriminazioni ecc. 

La  nostra gentilezza amorevole(maitri) si ottunde e finiamo per non provare più compassione  per niente e nessuno, l'orrore diventa banale normalità , non ci tocca più.

Stavo pensando a questo e trovo questo articolo di Recalcati che si pone la stessa domanda e incita e continuare a testimoniare l'orrore affinchè non subentri l'assuefazione......se vi va di leggerlo.

 Massimo Recalcati

Testimoniare l’orrore

La Stampa, domenica 31 luglio 2022

Un amico oncologo mi raccontava il suo stupore nel non sentirsi più di tanto coinvolto nei drammi

dei suoi pazienti di fronte alla malattia. «Il tempo - mi spiegava - è come se avesse disattivato le mie

emozioni». Accade anche con ogni esperienza di lutto: il fattore tempo è determinante per spegnere

il bruciore inizialmente insopportabile della perdita. «Impossibile continuare senza, ma impossibile

non continuare senza», scriveva Beckett. Ma quello che avviene nelle pieghe più intime della nostra

vita privata si ripete anche nella dimensione pubblica della nostra vita collettiva. Un esempio fra tutti

è quello della guerra in Ucraina. Le maratone televisive e i servizi giornalistici febbrili dei primi tempi

hanno lasciato il posto ad una informazione tristemente routinaria. Della guerra in sé si tende a non

parlare più, a non dedicarvi più la nostra attenzione se non per le conseguenze dirette che essa provoca

sulle nostre vite: aumento delle bollette, caro vita, maggiore precarietà economica e sociale, futuro

incerto. È scattato quel meccanismo di assuefazione psichica che ha coinvolto anche il mio amico

oncologo.

Freud ne parlava proprio a proposito della guerra e dell'indifferenza alla quale essa costringe gli esseri

umani di fronte ai numerosi cadaveri anonimi che genera quotidianamente. Il peso emotivo che la

vista del cadavere di una persona affettivamente cara può provocare sembra scomparire.

L'assuefazione è l'effetto di un distanziamento psichico finalizzato alla neutralizzazione di un fattore

giudicato perturbante. Ma, in realtà, questo distanziamento è, a sua volta, l'effetto di un'eccessiva

prossimità inconscia all'oggetto dell'angoscia. Accade anche allo psicoanalista che quotidianamente

è esposto all'incontro con la sofferenza dei suoi pazienti. Lacan, non a caso, paragonava la sua 

funzione a quella di una discarica: raccogliere ed evacuare il peggio, il negativo, l'insopportabile. Il

fenomeno dell'assuefazione è un fenomeno di difesa dal trauma: l'abitudine vorrebbe poter ridurre lo

scandalo - indigeribile psichicamente - di ciò che accade. Avviene anche di fronte alla violenza di

ogni genere: anziché restare storditi, colpiti, offesi dalla brutalità e crudeltà del male, esiste

nell'umano un'insidiosa tendenza all'adattamento, all'assimilazione di ciò che non può essere affatto

assimilabile. Avviene con la fame nel mondo che più che una piaga che mobilita il dovere civile del

soccorso, viene percepita come se fosse una fatalità naturale. Avviene con la violenza razzista, con

quella femminicida, con gli incidenti sul lavoro e in tante altre occasioni della nostra vita collettiva.

Come indicano diversi antropologi, la nostra civiltà dello spettacolo tende a trasformare ogni evento

in una sorta di apparizione televisiva o cinematografica, destinata a scadere di interesse in tempi

sempre più brevi per gli spettatori annoiati dal "già visto", quali, in fondo, tutti noi tendiamo ad essere.

La guerra in Ucraina resta un evento in sé al limite del concepibile, indigesto, scandaloso, ma il

sistema della comunicazione sa bene che il carattere eccezionale di tutti i fenomeni che divengono

oggetto assiduo di informazione tende a durare sempre di meno, dunque, a generare meno audience.

L'assenza di risposta allo stimolo è infatti un fenomeno comportamentale tipico di ogni fenomeno

dell'assuefazione. Ora, dopo il tempo della guerra, è il turno della campagna elettorale a polarizzare i

nostri interessi. È quello lo spettacolo che ha inevitabilmente calamitato l'attenzione dei media. Col

rischio però che vi sia assuefazione anche nei confronti della nostra vita politica. Non a caso

assuefazione e disaffezione, come mostra il fenomeno dell'astensionismo elettorale, possono essere

due facce della stessa medaglia. Eppure cosa c'è di più coinvolgente – in senso letterale – della vita

politica? I nostri interessi personali e collettivi ne sono profondamente toccati. Ma questo dato di

realtà non è sufficiente e rischia di non essere nemmeno percepito. Accade lo stesso con una guerra,

che nonostante sia esplosa nel cuore dell'Europa, non è in grado di disinnescare il fenomeno

dell'assuefazione. Assuefazione diviene infatti sinonimo di assimilazione; il carattere indigeribile

della guerra viene rimosso rendendo la guerra parte del nuovo paesaggio dell'Europa. Sembrerebbe

inverosimile ma è proprio quello che sta accadendo. Del resto, in pagine divenute giustamente celebri,

Primo Levi, parlando della tragedia della vita nei campi di sterminio, mostra quanto la spinta

dell'umano all'adattamento in condizioni di vita inverosimili possa raggiungere vertici tenebrosi. Per

questa ragione ammonisce sulla necessità di testimoniare con tenacia l'orrore, per impedire che esso

si ripeta e per scongiurare anche il rischio di assuefarsi alla sua esistenza. È, infatti, solo la

testimonianza insistita dell'orrore a riconoscere l'orrore come tale impedendo la sua assimilazione

assuefatta. —

" Le parole che non fanno male, le parole che aiutano le persone che

vivono nel dolore, o nella disperazione, nell’angoscia, o nella paura, non le

troveremmo mai, lo vorrei dire ancora, se non siamo capaci di tenerezza e

di gentilezza, che ci aiutano a immedesimarci nella interiorità delle persone

che la vita ci fa incontrare." Eugenio Borgna

Trovare del parole che non fanno male, anzi quelle che fanno bene è una pratica da Bodhisattva, e può essere efficace solo solo se in noi c'è Maitri(la gentilezza amorevole) e la tenerezza come dice il Prof Borgna.

Il suo ultimo lavoro si intitola :Tenerezza(ed. einaudi) ed è una bella riflessione su questo delicato modo di sentire ed essere  troppo spesso dimenticato o sottovalutato.

Trungpa Rimpoche diceva che dobbiamo avere un cuore tenero, che si lascia toccare dalla sofferenza altrui, che sa meravigliarsi di fronte al bello , che è capace di compassione ,cioè di sentire con.

Attraverso la meditazione seduta e le altre pratiche impariamo ad aprirci e lasciarci andare, lasciamo che la vita sia come è, senza manipolarla ma ,anche, senza rifuggirla.

Avere un cuore tenero significa essere aperti alla vita e pronti ad accogliere ogni esperienza e a condividere con gli altri.

Un gesto o una parola "teneri" hanno un reale potere curativo, è come un balsamo per le nostre sofferenze, basta poco per essere d'auto, se solo abbiamo questa qualità.

Ricordo quando, dopo un lungo e faticoso viaggio, raggiunsi il mio maestro Shantidas e lui semplicemente mi prese la mano e disse: "ma....vieni da lontano!" con una dolcezza e premura che mi inondarono .....

Un semplice gesto, che però poneva le basi per un rapporto profondo e significativo.

Per sviluppare la tenerezza (maitri) nella tradizione tibetana si pratica il TongLen , una pratica in cui inspiriamo il dolore e sofferenze altrui ed espiriamo positività e benedizioni( la pratica è descritta nel dettaglio nei testi di Pema Chodron), attraverso la ripetizione di questa meditazione ,gradatamente, rendiamo più tenero e e sensibile il nostro cuore e ci predisponiamo ad esserci per gli altri.

Che vogliamo praticare il TongLen o meno, l'importante è sviluppare questa capacità di gentilezza e apertura,senza la quale saremo incapaci di vere relazioni e risulteremo privi di qualsivoglia compassione.



venerdì 12 agosto 2022

 "Alcuni anni fa ho lavorato con un paziente che era uno studente Naropa e un praticante di meditazione. Mi ha detto qualcosa su cui rifletto spesso. "Sai", ha detto, "quando sono molto impegnato e non ho tempo per praticare la meditazione, non ho mai abbastanza tempo. Ma se faccio la mia pratica meditativa, in qualche modo c'è più spazio e ho abbastanza tempo per tutto".Karen Kissel Wegela

é proprio cosi!.....se ci prendiamo il tempo per la nostra pratica in modo costante e quotidiano, se ci diano una regola ,una organizzazione, ecco lo spazio si amplia .

Dire che non si ha tempo per meditare un poco ogni giorno è solo una scusa che ci diamo per non impegnarci, è una forma di difesa che mettiamo in atto perchè, magari inconsciamente, temiamo che la pratica funzioni e metta in discussione i nostri modi stereotipati di vedere , i giochi del nostro IO.

Bisogna organizzarsi per avere un tempo da dedicare a noi stessi tramite la pratica, è importantissimo farci questo regalo, è un modo per fare amicizia con noi stessi e aprirci al reale.

Certo la vita è ,a volte, caotica, si corre di qua e di là.......ma proprio per questo è fondamentale fermarsi, trovare lo spazio/tempo per centrarsi.

La pratica deve essere costante se no è come fare un giorno di dieta e 10 di abbuffate.....non si può certo pensare di dimagrire!

La pratica è un lavoro lento che funziona sul lungo termine , ci vuole metodicità , motivazione e dedizione.

Prendetevi uno spazio ogni giorno, sempre alla stessa ora, anche solo 10 minuti in cui dedicarvi alla pratica , l'importante è che si faccia con continuità, senza scuse.


domenica 7 agosto 2022

 "vivere nello specchio della morte" .....da qualche parte ho letto questa frase che,mi pare, colga perfettamente l'essenza della vita spirituale un pò in tutte le tradizioni.

Nella regola di San Benedetto si enfatizza che il monaco debba vivere sempre consapevole dell'ineluttabilità della morte, così pure nelle pratiche del Ngondro tibetano, e potremmo citare  cose simili in ogni tradizione.

Se non siamo consapevoli della nostra mortalità non possiamo apprezzare la vita , il memento mori è anche memento vivere!

Se ci ricordiamo che dobbiamo morire allora ci impegniamo a vivere l'attimo presente in tutta la sua ricchezza e magia.

Siamo grati per ciò che siamo/viviamo/abbiamo solo nell'orizzonte della perdita, se diamo tutto per scontato e per "eterno" non può esserci gratitudine e meraviglia.

Pensavo a quanti maestri, amici/che se ne sono andati e quanto mi mancano e di colpo ho sentito con totale vividezza la gratitudine per il fatto che abbiano incrociato la mia vita, un gratitudine per ciò che è stato e non potrà mai più essere.

Padre Grun raccontava di essere stato invitato da una coppia omosessuale a celebrare la loro separazione dopo anni di vita insieme , perchè volevano chiudere la loro storia con gratitudine reciproca e non con recriminazioni e rancori e lui creò una sorta di rituale per aiutare questo passaggio, per offrire la possibilità che la gratitudine si sviluppasse, pur nell'orizzonte di una fine.

In molti , se sentono dire di meditare sulla morte o di vivere nel suo specchio, trovano tutto ciò un pò macabro o disturbante , senza comprendere che è il passaggio essenziale per passare dall'inconsapevolezza alla consapevolezza, dal delirio di onnipotenza all'accettazione dei propri limiti, dalla cecità alla luce.

Impariamo ,dunque, ad apprezzare la vita.....grazie allo specchio della morte.


giovedì 4 agosto 2022

 "IL LAVORO DI UN INSEGNANTE(di Dharma) è assorbire, quando necessario, la croce dello studente. Se quella croce  ti da un bel po' di fastidio, di certo non dovresti insegnare. Anche se

ti da fastidio più di una volta, non dovresti insegnare.

Perché se ti dà fastidio, se la croce  ti provoca dolore, non puoi vedere chiaramente.

Sei accecato e il compito dell'insegnante è vedere chiaramente uno studente."charlotte joko beck

Un insegnante di Dharma dovrebbe essere sufficientemente consapevole se è in grado o meno di assorbire e supportare la "croce" , la sofferenza dello studente.....se quella croce è troppo pesante da portare dovrebbe ritirarsi.

Il rapporto fra insegnante e studente di Dharma, è qualcosa di incredibilmente magico e delicato,necessita di una particolare armonia, se questa viene a mancare il rapporto diviene tossico o, come minimo, inutile.

L'insegnante non è divino, ha i suoi limiti e deve esserne totalmente consapevole per non rischiare di proiettare la propria ombra sullo studente e per non farsi sommergere dalla sofferenza dell'allievo.

Dobbiamo capire fin dove possiamo spingerci e fermarci prima che la terra ci manchi sotto i piedi.

L'errore di insegnare a chiunque ,di ritenersi capaci di aiutare tutti ha creato non poca confusione e sofferenza, creando situazioni ingestibili.

Joko Beck indica con chiarezza che dobbiamo guardarci da questo errore e insegnare/supportare solo nell'ambito delle nostre attuali capacità.

Per questo,oltre che per mille altri motivi, da anni non faccio nulla per avere studenti o gruppi: se l'incontro accade ed è costruttivo non ci si tira indietro.....se no, meglio lasciar perdere!

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