sabato 29 ottobre 2022

 ELOGIO DELLA TRISTEZZA


Siamo ormai nell’autunno inoltrato: il sole è più pallido, le giornate uggiose e il vento fa cadere a terra le foglie spogliando gli alberi. Questa è la stagione che ispira sentimenti di malinconia e anche di tristezza in molti, ma soprattutto nei vecchi. E non è certo un caso che la tradizione religiosa abbia collocato proprio nell’autunno la memoria dei morti.Ma questa tristezza sobria che ci coglie è un sentimento negativo, un’esperienza da rimuovere, una sensazione da scacciare al più presto? Perché oggi l’imperativo dominante è che non bisogna essere tristi. Eppure la tristezza, la malinconia, sono sentimenti necessari per vivere in pienezza e se noi fossimo privati di queste esperienze saremmo privati di qualcosa che ci aiuta a vedere e leggere la realtà diversamente e a vivere con più chiarezza la metafora, il ricordo del passato, nell’accettazione di ciò che non è più ma che è stato significativo nella nostra vita.

Per non conoscere la tristezza sarebbe auspicabile vivere in una prigione dorata? La leggenda narra che il padre di Gautama, colui che diventerà l’illuminato, il Buddha, desiderando che il figlio non conoscesse né la tristezza né il dolore fece recintare lo splendido giardino della sua reggia impedendogli così di uscire e di conoscere la realtà del mondo. Pensava che le ragioni per essere tristi stessero fuori del giardino! Ma un giorno Gautama riuscì a uscire e incontrò un malato, un vecchio decrepito e un morto. Conobbe la tristezza, ma quella fu la condizione attraverso la quale potè cercare l’illuminazione, acquisire la sapienza e diventare il Buddha.

La tristezza nasce da realtà umanissime: la mancanza, la sofferenza, la separazione, la malattia, la morte. Ma queste fanno parte della vita e non è possibile rimuoverle se non aderendo a illusioni.

È però decisivo che la tristezza originata dagli incontri che facciamo e dalla nostra consapevolezza non diventi un inquilino stabile nel nostro cuore e non finisca per possederlo occupandolo interamente. Se questo avvenisse la tristezza ci oscurerebbe lo sguardo del cuore e ci impedirebbe di vedere la luce di ogni giorno, il volto amico che ci appare in ogni incontro, la bellezza che sempre elusiva vince ogni bruttezza. In questo caso la tristezza diventerebbe sofferenza, addirittura disperazione, ma più spesso acedia: l’acedia infatti è la “cattiva tristezza” accompagnata da noia, mancanza di desiderio e di passioni.Nella tristezza si può anche piangere come nella gioia, e le lacrime sono il linguaggio non verbale che dice “sì” alla vita. Bonjour tristesse! Lo possiamo dire quando la tristezza si affaccia nella sua sobrietà come malinconia, turbamento dominato, silenziosa mancanza. Diceva il piccolo principe: “Sai, quando si è tristi si amano i tramonti…”, si ama quel clima silenzioso in cui viene la sera, si  concludono i giorni sempre più brevi dell’autunno. “Radiosa tristezza”, la chiamavano gli uomini e le donne spirituali della tradizione cristiana, “radiosa” perché è come la luce del tramonto che fa palpitare il cuore, fa tacere il cuore umile non altero, fa sentire che ci manca qualcosa, e ci fa attendere un altro giorno.

Recita un haiku: “Il camino è acceso, il silenzio mi avvolge, gusto la tristezza!“.

ENZO BIANCHI

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A ognuno le proprie considerazioni.......

Personalmente mi ritrovo abbastanza in queste righe, la tristezza non va allontanata o rimossa ma vissuta pienamente, come ogni altro aspetto della vita.

Accogliere la tristezza, così come dolore con equanimità ed equilibrio è il cuore della pratica meditativa, non c'è liberazione dalla sofferenza se non nel confronto con la sofferenza.

Sentire che ci manca qualcosa può essere disorientante e doloroso, ma è la condizione umana , nel relativo non ci sentiamo mai completi, ci manca lo spazio e la libertà dell'assoluto, ed è proprio questo senso di mancanza che ci spinge verso un percorso di ricerca spirituale.

Cerchiamo quindi di celebrare anche la tristezza senza cercare di stordirci con mille distrazioni pur di non accoglierla.

lunedì 24 ottobre 2022

 "Che angoscia vivere con un amore logorato,l'anima non cresce più..."P.P. Pasolini

Questo verso di Pasolini mi ha colpito, credo centri il bersaglio....ogni volta che un nostro "amore" è logorato l'anima non cresce più;questo vale per rapporti affettivi così come per i rapporti spirituali.

Quando la nostra passione per qualcuno, per la pratica o per il maestro langue, abbiamo una sensazione di stallo, di blocco, ci pare che il respiro interiore sia come sospeso.

Mantenere vivi i nostri amori è fondamentale per mantenere creativa la nostra interiorità, dobbiamo curare i nostri amori, dobbiamo incrementarli,fare sì che siano forti e significativi.

Ricordate l'energia che vi pervadeva al primo innamoramento? o al primo incontro con il vostro maestro o con l'insegnamento spirituale ?

Quell'entusiasmo, quella voglia di conoscere, quel fuoco ardente che ci illuminava ci donava una vitalità inusitata.

Dobbiamo cercare di mantenere quell'energia, se comincia a scemare pian piano ci spegniamo, "l'anima non cresce più", entriamo in una notte spirituale che è agra e dolorosa.

Saper essere sempre "innamorati" della vita, è la condizione di base per una vita spirituale, senza questa "passione" c'è solo una ripetizione priva di creatività.

Si diceva che "un santo triste è un triste santo", ogni essere umano senza amore è un ben triste essere umano!

Non sempre è facile mantenere questo "amore"  che è fondamentalmente gratitudine, dobbiamo imparare a nutrirlo, a curarlo, a riconoscere quando comincia a languire e intervenire prontamente.


venerdì 14 ottobre 2022

 Da qualche parte qualcuno ha bisogno di aiuto.

Invia amore.

E' importante


Se non riesci ad arrivarci da solo,

fai un respiro profondo.

Respira il peso dei loro problemi.

Espira e manda tutti quei fardelli

nella Luce

dove i dolori possono essere trattenuti

con la grazia più tenera e infinita.


Inspira quello che sai fare.

Espira ciò che non puoi cambiare.

Svolgi un filo di connessione,

invia coraggio e calma.

Perché le notti possono essere lunghe

e piene di ombre,

e talvolta sorgono terribili

acque inaspettate.


Da qualche parte qualcuno ha bisogno di aiuto.

Invia amore.

E' importante

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Carrie Newcomer

domenica 9 ottobre 2022

 Mi si chiedeva, a fronte ci alcuni commenti(forse non troppo chiari), se questo blog è apprezzato o no in ambito buddhista.....

Francamente non saprei rispondere anche perchè non conosco i miei pochi lettori, tranne qualcuno, posso però dire che non sempre i miei pensieri coincidono con certa ortodossia: sono il frutto della mia esperienza che è ben contaminata dal cristianesimo, dalla psicologia, dalla filosofia.....e non hanno alcuna pretesa di diffondere un qualsivoglia "dogma" , buddhista o meno.

Sono solo mie riflessioni che nascono dalla mia vita e dalla mia pratica, e valgono quel che valgono, se qualcuno cerca di essere edotto sulle "ortodossie" delle varie scuole buddhiste, deve cercare altrove.

Non so ,quindi , se ai buddhisti "veri" il mio approccio piace o meno e ,francamente, me ne infischio!


martedì 4 ottobre 2022

«Viene un momento, fra i trentasei e i quarant’anni (per alcuni un po’ più tardi), quando, poniamo, una domenica qualunque, anziché andare in chiesa, improvvisamente ci viene il pensiero: «come è stato l’anno passato?» o qualcosa del genere; e allora spunta il dubbio, e ti senti mancare il respiro e smetti di pensarci, perché quel pensiero è penoso. Ora, vedete, nella prima metà della vita può esserci una resistenza contro l’espansione, contro la grande avventura sessuale. Quando un giovane prova resistenza contro il mettere in gioco la propria vita, o contro il trovarsi un posto nella società, poiché questo compito richiede una certa concentrazione e un certo sforzo, è facile che diventi nevrotico. 

Alla stessa stregua, nella seconda metà della vita le persone che cercano di sottrarsi al naturale evolversi della psiche, alla riflessione, alla preparazione per la fine, tendono anch’esse a diventare nevrotiche. Sono le nevrosi della seconda metà della vita. […] le persone coinvolte sono altrettanto nevrotiche di quelle che oppongono resistenza alla vita durante la giovinezza. Anzi, si tratta delle medesime persone: da giovani non vogliono entrare dentro la vita, metterla in gioco, rischiare la salute, poniamo, o la vita per amore della vita, e nella seconda metà della loro esistenza non gliene rimane il tempo. 

Perciò, quando parlo della meta che segna il fine della seconda metà della vita, potete farvi un’idea di quanto debba necessariamente essere diversa la psicoterapia nella prima e nella seconda metà della nostra esistenza. Bisogna affrontare un problema di cui non si era mai parlato prima. Per questo motivo sostengo con tanta convinzione l’idea di scuole per adulti. Sapete, voi siete stati preparati alla vita in modo stupendo: abbiamo ottime scuole, buone università, e tutto questo serve come preparazione per la fase di espansione della vita. Ma dove sono le scuole per gli adulti?  Per le persone che hanno quaranta, quarantacinque anni, perché siano preparate alla seconda metà della vita? Non ne esistono. Questo è tabù; non si deve parlarne: non è sano. E allora abbiamo queste belle nevrosi da climaterio.»Carl Gustav Jung

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In fondo la pratica meditativa può essere vista come la scuola per prepararsi ad essere " umani", quindi alla seconda metà della vita, può essere un educarsi ad affrontare i dubbi esistenziali, le prove della vita senza cercare di sfuggire.

Tutti abbiamo bisogno di questa preparazione, poi possiamo farla con la meditazione o in altri modi, l'importante è prepararsi.

lunedì 3 ottobre 2022

 L’emergenza dovuta alla pandemia che ha ristretto il campo della nostra osservazione, la preoccupazione per la guerra ai confini dell’Europa – una guerra tra Russia e Occidente, come si è subito rivelata –, le difficoltà dovute alla recessione economica che stiamo attraversando, ci hanno impedito di leggere ciò che stiamo vivendo nel quotidiano a livello individuale e sociale. Ma se si cerca di farne una lettura formulandone un giudizio ci rendiamo subito conto che l’involgarimento del gusto, l’imbarbarimento dei modi, la mediocrità e la rozzezza (quest’ultima chiamata da Robert Musil “prassi della stupidità”) pervadono ogni ambiente della nostra società. Il clima in cui viviamo è ormai per molti di noi un’insostenibile pesantezza, perché deteriora e compromette la qualità della vita personale e collettiva, l’“io” e il “noi”. A questo appiattimento acritico su modelli spesso importati, a una cultura segnata da competitività, aggressività, negazione del diverso, sembra non sia possibile reagire efficacemente in campo educativo, per cui l’involgarimento è dilagante.

Sappiamo tutti elencare le crisi che stiamo attraversando, ma forse alla radice di molte di queste dovremmo riconoscerne una: la crisi del senso di responsabilità. Essere responsabili significa tenere costantemente presente il volto dell’altro, degli altri, perché il volto sempre si volge a me con una domanda, un’attesa, la richiesta implicita di una risposta che è la prima forma di responsabilità.

Ma per arrivare a possedere il senso di responsabilità certamente occorre resistere all’esproprio dell’interiorità, tentata dalla dominante colonizzazione della cultura di massa, sempre più tecnicizzata. Senza una vita interiore in cui possano sorgere le domande, riesca trovare spazio la critica, si possa misurare la capacità di resistenza, chi mai potrà tentare vie di libertà? Anche l’educazione, la trasmissione del sapere, come potrebbero avvenire in modo efficace e fecondo senza la formazione dello spirito o della vita interiore?

Troppo scarsa è l’attenzione che si dedica alla preparazione alla vita, alla formazione del carattere, all’esercizio del pensare e del discernere, e va anche denunciato come sia mancata una trasmissione da parte di quelli che dovevano essere “trasfusori di memoria”. Abbiamo avuto invece dei rottamatori che ci hanno lasciato solo rovine, e ora il panorama si presenta desertificato, senza più qualcuno che viva la passione per un compito, una missione.

È soprattutto nella vita della polis che si mostra il senso di responsabilità che impedisce il regnare della demissione. Sì, la demissione di fatto non può essere chiamata con altro nome che con quello di “stupidità”. Scrive Dietrich Bonhoeffer nelle lettere dal carcere: “Per il bene la stupidità è un nemico più pericoloso della malvagità. Contro il male è possibile protestare, ci si può compromettere, in caso di necessità ci si può opporre con la forza… ma contro la stupidità non abbiamo difese … in determinate circostanze gli uomini vengono resi stupidi, o si lasciano rendere tali. Il potere di alcuni richiede la stupidità degli altri”.

Parole che dicono l’urgenza di opporre resistenza, di impegnarsi in una vita interiore, per essere dotati del senso di responsabilità. ENZO BIANCHI

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Non si può che concordare.....senza vita interiore non c'è empatia, compassione, responsabilità .

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