domenica 25 febbraio 2018


QUESTO E' QUELLO CHE C'E'  di CAROLYN ATKINSON(ROSHI)

Questo è quello che c'è:
Sveglia al buio e al freddo. Non dormire più.
Questo è quello che c'è:
Pioggia sul tetto. Giornale fradicio e fangoso.
La sua bocca trema mentre pensa ai bambini che soffrono.
Fiori primaverili: croco, giacinto, improvvisamente in fiore.

Questo è tutto ciò che c'è:
Sedendosi ancora e ancora, al buio, al freddo,
Sotto il sole, sotto la pioggia, questo è tutto ciò che c'è.
Capelli che diventano d'argento, insegnanti che muoiono, amanti che se ne vanno, vecchi amici che tornano.
Bambini cresciuti che chiamano per dire "Ti amo".

Questo è quello che abbiamo:
Fredda brezza dell'oceano, sale nell'aria.
Una madre grida, definendo suo figlio un pazzo.
Questo è quello che abbiamo:
Un amico che mangia la zuppa sul tavolo.
Una lotta per lodare questo mondo mutilato.
Un desiderio di significato trascendente. Un desiderio di cambiare le nostre vite.
E questo desiderio-è quello che abbiamo anche noi:
Un desiderio per il cuore di guarire, per la mente di rilassarsi-

Anche questa è la nostra vita.

Non può essere giusto, vero?
Ma questo è tutto ciò che c'è:
Mail non aperta, vite non finite.
Dolore, dolore, gioia inaspettata.
Tè verde. Tremante. Nebbia che sale dalla terra.
Desiderosa di essere altrove.
La luna alla finestra.

Questo è tutto ciò che esiste: nascita, morte e tutto ciò che sta in mezzo.
Niente di speciale. Tutto speciale. Nient'altro che solo. . . che cosa . . . è.
Questo è tutto ciò che c'è.

Questo è ciò che abbiamo: la vita, così com'è.
Rose, rododendri.
Imparare ad amare queste vite ordinarie.
Scarpe. Abbiamo le scarpe.


Questo è quello che abbiamo. Questo è quello che c'è. Questo è. Questo è.

domenica 11 febbraio 2018


UNA PERFETTA IMPERFEZIONE
Spesso sentiamo ripetere frasi del tipo:”tutto deve essere perfetto” oppure “nulla deve essere fuori posto” quasi che la vita dovesse  inchinarsi alla nostra idea di ordine ,adattarsi ai nostri desideri,
Ogni volta che sento queste frasi, peraltro comunissime(chi di noi no le ha mai dette ?)mi sorge subito una sensazione di irrealtà :che cosa intendiamo con :”tutte le cose al loro posto”?
Qual è il giusto posto in cui deve stare una certa persona o un certo avvenimento?Veramente sappiamo come dovrebbero essere le cose? In classe uno studente(a seguito dell’outing di un compagno sulla propria omosessualità) è sbottato:” Ma così è tutto fuori controllo, non è così che deve essere”,evidentemente turbato da un accadimento che si poneva al di fuori dei suoi schemi mentali .
Non è stato facile, anche se utilissimo, fargli comprendere(e con lui a tutti i compagni) che la vita è molto più varia e variegata di come noi la pensiamo, che la nostra idea di ordine e di perfezione è solo il prodotto di schematismi culturali,famigliari nonché psicologici e non ha nulla che fare con la poliedricità della Natura.
James Hillman ha speso una vita per spiegare che la nostra anima dovrebbe aprirsi alla sua essenza “politeista” poiché solo in quel modo possiamo godere della infinità della Vita.
Il nostro modello “monoteista”(non stiamo parlando di pensieri religioso, ma di dinamiche psicologiche!)ci porta ad avere una visione a senso unico della vita, e tutto ciò che esce dal nostro schema è percepito come inaccettabile ,come “imperfetto”.
La morte di un bambino è accettabile o è una imperfezione assurda?
Una malattia che ci colpisce quando meno ce lo aspettiamo non è forse una ingiustizia insostenibile?
La perdita del lavoro da cui dipende la sopravvivenza nostra e dei nostri famigliari, non è forse qualcosa al limite dell’assurdo?
Istintivamente tutti diremmo che sì, sono eventi che non sono accettabili,che escono da ogni nostra idea di vita  “perfetta”…..eppure….
Una donna, distrutta dal dolore dalla morte del figlioletto, si recò dal Buddha chiedendogli di aiutarla , il Buddha le rispose che l’avrebbe potuta aiutare se lei gli avesse portato un seme di senape trovato presso una famiglia in cui non ci fossero mai stati lutti.
La donna cominciò a girare di casa in casa ma ovunque bussasse c’era stato qualche decesso,così alla sera ritornò sconsolata e a mani vuote dal Buddha.
A quel punto il grande saggio potè spiegarle la legge dell’impermaneza e lei trovò finalmente  pace.
Il Buddha voleva che la donna facesse esperienza diretta che  la vita è ciò che è, non si basa sui nostri desideri o aspettative, la vita è perfetta così come è, potremmo dire che è di una perfetta imperfezione.Gli antichi Greci, che la sapevano lunga,raffiguravano VENERE ,la dea dell’amore , leggermente strabica e con una gamba lievemente più corta dell’altra, a significare la bellezza dell’imperfezione .
Se cerchiamo la perfezione cerchiamo un archetipo non un essere vivente, noi possiamo amare solo  l’individualità di una determinata persona., che è ciò che la allontana dalla perfezione archetipica(e quindi la rende unica),ciò che in definitiva la rende imperfetta.
Dobbiamo imparare ad accettate ed amare quelle che percepiamo come “imperfezioni” della vita, dobbiamo imparare a lasciar essere la vita così come è.
Il percorso verso una vita autentica passa attraverso la capacità di stare con ciò che c’è senza rifiutare nulla e senza rincorrere sogni di perfezione o di controllo della realtà, la saggezza ha come base l’equanimità,cioè il vivere ogni evento(piacevole o spiacevole)senza farci turbare eccessivamente, riconoscendolo per ciò che è senza aggiungerci la sofferenza mentale che nasce dal rifiuto(è tremendo! Inaccettabile! Ecc) o dall’attaccamento(bellissimo,deve durare per sempre!).

La vita è continuo cambiamento ,dobbiamorilassarci in questa corrente liberi da ogni aspettativa o schema, come ZORBA ,il protagonista del capolavoro di N, KAZANZTAKIS  dobbiamo poter dire: “è una disgrazia? Sì, ma è una perfetta disgrazia!”e danzarci sopra.

lunedì 5 febbraio 2018


ecco un testo per un convegno  cui parteciperò il 12 febbraio....a Vignola.....


Spesso, durante conferenze o incontri, mi viene chiesto: “Cosa è il Buddhismo? È una religione?” E io, pazientemente, ripeto che, nella sua essenza, non può essere definito tale.
Dovrei rispondere, come l’antico maestro zen: "il Buddhismo è mangiare quando si mangia,dormire quando si dorme!”. Temo però che molti non capirebbero.
Già il termine Buddhismo è impreciso e disorientante perché, nella nostra lingua, significa: una tradizione che deriva dal Buddha, anzi una “dottrina”, mentre il Buddha ha sempre chiamato il proprio insegnamento “DHARMA”, parola dai vari significati ma che in questo caso possiamo tradurre come “legge naturale e universale”.
Il Buddha ci insegna quindi ad armonizzarci, attraverso la meditazione, alla legge naturale del cosmo, a godere serenamente di tutto ciò che c’è, gioie e dolori, totalmente aperti nei confronti di ogni aspetto della vita.
In questa ottica la tradizione che deriva dal Buddha è più affine ad una psicologia o a una filosofia esistenziale che non ad una religione, almeno come la intendiamo in occidente.
A livello popolare vi sono poi anche atteggiamenti e pratiche più “religiose” ma sono spesso di derivazione pre-buddhista e comunque hanno a che fare con un livello essoterico, e non hanno nulla a che spartire con gli insegnamenti più autentici e profondi.
Il Dharma del Buddha è un insegnamento totalmente umano teso ad insegnare agli uomini a divenire se stessi, a realizzarsi nella propria umanità con le proprie forze, senza alcun rapporto con un Dio personale che non viene mai né affermato né negato.
Hirata Roshi( grande maestro zen della tradizione Rinzai), ad un incontro interreligioso con monaci cattolici, dopo aver ascoltato il discorso di un abate benedettino disse: “Siamo d’accordo su tutto, solo che noi pensiamo che, se Dio esiste, ha già fatto la sua parte.”
Il problema di Dio non si pone, possiamo crederci oppure no, è inincidente, perché il vero mistero è la sofferenza di cui è permeato il vivere e con cui dobbiamo fare i conti trovando un modo per integrarla nella nostra percezione della realtà, imparando a gestirla.
Spesso di pensa che il fine della meditazione Buddhista sia il Nirvana, la liberazione dalla sofferenza, mentre invece si tratta di una liberazione “nella sofferenza”.
Accettando la sofferenza, l’impermanenza, la mortalità e percependo l’intrinseca perfezione della vita, imparando un approccio esistenziale “senza troppo attaccamento e senza troppa avversione” si può giungere ad una vera fruizione dell’essere.
Nulla può “salvarci” dalla nostra condizione umana, nessun Dio o Salvatore, solo un addestramento mentale può permetterci di vivere pienamente liberi da quella mole di sofferenza psicologica che una mente non educata costruisce in continuazione.
Nell’insegnamento Buddhista non vi è nulla di “eccezionale”, il Dharma non è nulla di speciale, solo mangiare, dormire, camminare, … e farlo completamente, totalmente, in piena consapevolezza, connessi con ciò che c’è qui ed ora.
Anche il problema dell’aldilà, nell’insegnamento autentico, non si pone. La diffusa credenza nella reincarnazione è derivata dalla dottrina Hindu e, francamente, ha ben poco a che spartire con l’idea Buddhista del non-io (cioè che non c’è un’anima individuale, un io spirituale) che si cerca di sfumare con un nebuloso concetto di continuum mentale.
Sogyal Rimpoche( maestro della tradizione Niyngmapa), a fronte dell’ennesima domanda sulla reincarnazione, disse che credere in una qualche forma di continuazione della vita è un bel modo per non prendere sul serio la morte.
Si nasce, si vive, si muore: questi sono i fatti, possiamo solo cercare di vivere al meglio possibile e di morire sazi di vita, tutto qui!
Se quindi il Buddhismo non è una “religione” anche il tema dell’etica cambia: in ultima analisi non esiste nessun codice morale assoluto. Chi vive in piena consapevolezza è totalmente libero, anche dai vincoli morali (che sono vincoli relativi) perché spontaneamente sa come adattarsi al fluire della vita scegliendo, di volta in volta, l’agire più idoneo alla bisogna.
Certo, ai livelli meno levati, si consigliano i cinque precetti:
  1. astenersi dall'uccidere o dal nuocere agli esseri viventi;
  2. astenersi dal rubare;
  3. astenersi dall'erronea condotta sessuale (provocando sofferenza ad altri);
  4. astenersi dall'uso di un eloquio volgare o offensivo e dal mentire;
  5. astenersi dall'alcool o dalle sostanze che alterano la lucidità mentale;
che sono indicazioni per evitare di fare danno a se stessi o agli altri, ma che possono essere superate man mano che diventiamo più saggi e consapevoli.
Nulla, in ultima istanza, è vietato se siamo totalmente consapevoli e conseguentemente compassionevoli, ne sono esempio i maestri della saggezza folle delle tradizioni Dzogchen e Zen.
Dobbiamo sempre ricordare che viviamo contemporaneamente nel relativo e nell’assoluto: nel relativo l’etica è uno strumento di convivenza sociale importante, nell’assoluto è priva di ogni sostanza.
E’ fondamentale  praticare i cinque precetti fintanto che non si è fatta esperienza del Rigpa( dell’assoluto) perché è facile, nell’inconsapevolezza, confondere libertà e libertinaggio , provocando caos sociale e sofferenza, a noi e agli altri.
Il saggio è colui che sa vivere del relativo rimanendo però nell’orizzonte dell’assoluto, che gioca i ruoli e i limiti del relativo essendone, però, intimamente libero.
Il Buddha voleva che diventassimo Buddha noi stessi (Buddha significa RISVEGLIATO) e non dei Buddhisti, dei fedeli senza acume, tant’è che le sue ultime parole furono: SIATE LUCE A VOI STESSI.

Un buon praticante del Dharma non deve seguire pedissequamente insegnamenti, pratiche o etiche, deve trovare se stesso e il proprio autentico modo di essere nel mondo senza essere del mondo, libero da ogni schematismo e dogmatismo, per questo se incontra il Buddha è meglio che lo uccida, e se sente parlare di lui passa oltre, per non attaccarsi a nulla, neppure al Buddha.

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