martedì 29 ottobre 2019

un testo che dice tutto.......non saprei cosa aggiungere!

Come il Divino cresce in noi
David Steindl-Rast
Forse è appropriato, col tema “Come il Divino cresce in noi”, iniziare con un momento di silenzio, in cui Lei stesso o Lei stessa entra in relazione con quel che intende per “Divino”.
In questo tema per me la parola decisiva è “in noi”. Io parlerò in base alla mia esperienza e mi rivolgerò alla Sua esperienza del tutto personale. Faccio per così dire appello alla Sua esperienza, perché su di un tema così si può parlare solo per esperienza. Spero dunque che Lei verifichi sempre in base alla propria esperienza quel che dico qui.
Vorrei scorrere il titolo parola per parola. Con “Divino” intendo ciò che Dorothee Soelle chiama il “Più”. Più e sempre più, più in tutte le dimensioni. La parola “Dio” e “Divino” è così appesantito, che in realtà dobbiamo trovare un’altra parola. “Più” è molto appropriato. Non soltanto più allo stesso livello, bensì più a sempre nuovi livelli, in sempre nuove dimensioni. È questo “Più” che sta cuore a noi come esseri umani. Vogliamo trovare significato, ma solo se entriamo in relazione con questo “Più” possiamo trovare significato.
Cosa intendo con il “Divino”? In noi personalmente, ma anche nel mondo nel suo insieme - anche se non dovunque allo stesso modo - stiamo attualmente varcando a tutti i livelli la soglia di una nuova comprensione di questo “Più”. Sta irrompendo qualcosa di totalmente nuovo. Qui tratteremo in parte anche di questo.
Per quel che riguarda la “crescita in noi”, come può crescere questo “Più” in noi?
Tramite la nostra consapevolezza di questo “Più”, se ne diventiamo consapevoli e tramite la nostra relazione con esso, se lasciamo che ci coinvolga. Si tratta dunque di due cose: che ne diventiamo consapevoli e che lasciamo che ci coinvolga. La prima cosa, la consapevolezza, è più l’ambito della spiritualità. Il lasciarsi coinvolgere è più l’ambito della religione. Le due cose sono naturalmente inseparabili, poiché la consapevolezza e il lasciarsi coinvolgere si appartengono nel modo più stretto.  Ma spiritualità e religione possono essere distinte. Non possono essere separate, ma distinte. Da ciò dipende anche il nostro procedimento.
1. Spiritualità
Tratterò il tema spiritualità da quattro punti di vista.
1. Cos’è spiritualità?
2. In che relazione sta la spiritualità con la religione?
3. Cosa inibisce o impedisce la crescita di questo “Più” in noi, del Divino in noi?
4. Come possiamo stimolare questa crescita? Quale può essere il nostro apporto consapevole per stimolare questa crescita in noi?
Ora per il primo punto: Cos’è spiritualità? Qui proporrei che prendiamo come punto di partenza la parola spiritualità, che deriva dal latino “spiritus”. Spirito originariamente aveva il significato di alito di vento, respiro vitale. Proprio come “pneuma”, la parola greca, e “ruach”, la parola ebraica che la precede. Significano tutte respiro vitale e in senso traslato vitalità. Così io vedo la spiritualità come un aumentata vitalità, e cioè in tutti gli ambiti della vita. È un ampliamento del flusso della nostra vitalità. Noi non siamo sempre ugualmente vitali. La maggior parte di noi la mattina è meno vitali che la sera. Ma ci sono anche quelli che la mattina sono ultravitali e che in questo modo fanno disperare gli altri. Abbiamo diversi modi di essere vitali. Anche nelle varie stagioni della nostra vita abbiamo diversi modi di essere vitali. Se siamo vitali sotto ogni aspetto – e ci sono momenti nella nostra vita in cui siamo veramente così vitali -, allora possiamo come pregustare quel che potrebbe significare una spiritualità pienamente vissuta.
Questi attimi accadono in situazioni totalmente diverse e sono sempre sorprendenti.
Possiamo prepararci a questi momenti, ma sono sempre imprevedibili.
Qui sento che devo parlare di Abraham Maslow, che dai più è conosciuto per le sue gerarchie dei valori. Ma egli ha scoperto qualcosa ch’è ancora molto più importante. Le chiama e le descrive come “peak experiences”, in italiano esperienze del picco o esperienze di realizzazione. Vale la pena qui fare un piccolo excursus e dire qualcosa di più riguardo a come Maslow verso la metà del XX secolo ha fatto questa scoperta. Si è posto la domanda: cos’è che rende così vitali certe persone? Cosa le rende così creative? Cosa le rende così sane? Cosa le rende dei veri e propri esseri umani, così come si desidera che gli esseri umani siano? Egli dice: niente nella mia formazione psicologica mi aveva preparato a rispondere a questa domanda. Era sempre solo occupato a trattare malattie mentali e mai orientato a questo: cosa rende così sano un essere umano? Ha speso degli anni occupandosi di questa domanda ed è giunto ad un risultato per lui molto sorprendente. Tutte le persone così vitali, quelle viventi come pure quelle morte che egli conosceva solo dai loro scritti, hanno in comune una cosa: hanno esperienze mistiche. Questa descrizione non ha avuto una buona risonanza nella letteratura psicologica. Egli ha quindi presto cambiato questa espressione in “peak experiences”. Ma per tutta la vita è rimasto fedele al fatto che non c’è differenza tra “peak experiences” e l’esperienza mistica. Si tratta della stessa cosa.
Qual è l’elemento decisivo in una tale esperienza di vetta? Tutti noi ce l’abbiamo. Nel corso delle sue indagini Maslow ha constatato che non solo persone straordinarie hanno queste esperienze, ma che tutte le persone – nei limiti di quanto in psicologia si possa generalizzare – hanno queste esperienze. Egli però ha anche constatato che la maggior parte delle persone poi le reprimono. Alcune persone interrogate al riguardo gli hanno detto di non averne mai parlato a nessuno, perché le consideravano un momento di pazzia. Maslow disse al riguardo: per queste persone forse era stato l’unico istante in cui non erano pazze. Ora La prego di ricordarsi di una tale  esperienza di vetta. Non dev’essere una vetta particolarmente alta. Dipende da quanto alto è l’altipiano da cui Lei viene. Si tratta solo di questo, che Lei abbia un punto di riferimento nella propria esperienza di vita. Citerò quattro punti che caratterizzano un’esperienza di vetta. Ma non si preoccupi se nel suo caso non ci sono tutti. Questi sono piuttosto dei punti di riferimento.
Il primo punto sarebbe: il tempo è fermo. Il che può significare che è passata un’ora ma a me sembrano pochi minuti. Può anche darsi che l’esperienza sia durata solo pochi secondi e che in quell’arco di tempo è avvenuto qualcosa che Le sono sembrate ore. In queste circostanze la consapevolezza del tempo è come cancellata. La cosa decisiva è: siamo nel qui ed ora, nell’istante, siamo totalmente presenti. Questo è un punto importante di queste “peak experiences”.
Secondo, abbiamo un infinito senso d’appartenenza. Non solo verso tutte le persone, ma anche verso gli animali e le piante, i sassi, le stelle, il mare. Se abbiamo un esperienza di questo tipo fuori nella natura, ci sciogliamo nelle nuvole e negli alberi. Siamo uno con la natura. Ci sentiamo uniti a tutto. I stretti confini dell’io sono infranti, sfuocati o cancellati. Terzo, in questi istanti diciamo a qualcosa incondizionatamente sì. Un sì a tutto ciò che è, così com’è. Non giudichiamo, diciamo semplicemente sì. Guardiamo a tutto ciò che di solito chiamiamo buono, che di solito chiamiamo cattivo. Possiamo guardare a tutto, com’è. Rimane buono, rimane cattivo, ma possiamo dirgli sì, così com’è. Diciamo sì a tutto ciò che è.
E infine siamo riempiti da un estremo senso di felicità. Più che felicità. Di solito diciamo che è felicità se avviene qualcosa di buono. Nella “peak experience” l’esperienza della felicità è indipendente da quel che avviene. A volte abbiamo queste esperienze nel bel mezzo di situazioni terribili. In mezzo ad un bombardamento o nel caso di una morte. È una sensazione di felicità che non ha più quasi niente a che vedere con ciò che di solito chiamiamo felicità, perché la oltrepassa di molto.
Questi dunque sono i miei punti, senza che debbano per forza essere in questa sequenza:
1. Il tempo sta fermo, siamo nel qui ed ora.
2. Un’appartenenza illimitata.
3. Un sì a tutto ciò che è, così com’è, senza giudizio.
4. Un estremo senso di felicità.
Questi elementi sono secondo Maslow anche tipici dell’esperienza mistica.
Ora non occorre che lei si preoccupi e dica: ma io non sono un mistico. Il mistico non è una persona speciale, bensì ogni persona è un mistico speciale.
Come si distinguono allora i grandi mistici dalla persona comune? Per il fatto che lasciano che questa esperienza di vita confluisca in tutto ciò che fanno. Altri dimenticano queste esperienze o ne reprimono il ricordo. Se si coltiva l’esperienza mistica e la si lascia fluire nella vita, allora è qualcosa che forma la vita. Questo è il pieno significato di spiritualità. Nella misura in cui noi lasciamo fluire nella nostra vita quotidiana questa esperienza-del-tutto-uno, in questa misura siamo veramente vitali, contenti e presenti.
2. Religione
Come si giunge da questa vitalità, da questa vitalità della spiritualità che ci rende così felici, alla religione così spesso oppressiva e così spesso ben lontana dal renderci felici? Dalla spiritualità giungiamo inevitabilmente alla religione. Però non dico: a questa o quella religione. Qui non ho parlato delle religioni. Parlo della religione. Ogni essere umano ha questa religione. Ora proverò a mostrarLe, appellandomi di nuovo alla Sua esperienza, come si giunge dall’esperienza mistica alla religione, e da qui forse alle religioni.
Iniziamo con la parola religione. La parola latina per religione, religo, significa ricollegare, un ricollegamento all’esperienza mistica. Infatti l’esperienza mistica è creativa – crea la religione. Ora guardiamo più da vicino alla sua esperienza mistica, questa “peak experience”. Cosa succede un momento dopo? Nell’esperienza stessa siamo semplicemente presenti. Non pensiamo a nulla e non vogliamo nulla. Sentiamo questa beatitudine, siamo semplicemente presenti. Ma nell’istante successivo già viene il nostro intelletto che chiede: ma cos’è stato questo? Che ci poniamo questa domanda è inevitabile. Non possiamo impedirlo. Vi diamo una risposta,  originariamente una risposta mistica. Rispondiamo con un’immagine, in  contrapposizione alla teologia, che cerca una risposta convincente dal punto di vista della ragione. Il mito precede di molto la teologia. Ma comunque noi in un modo o nell’altro reagiamo alla domanda: cos’è accaduto qui? Anche se Lei non vuole avere niente a che fare con la religione, in un modo o nell’altro risponde comunque a questa domanda. Il suo intelletto le chiede una risposta riguardo a quel ch’è accaduto. Questo procedimento è dunque inevitabile. Da questa risposta si sviluppa la dottrina. Il mito stesso implica già una dottrina, spesso con un contenuto molto più ricco della teologia. Io vedo la relazione tra mito e teologia simile alla relazione tra poesia e critica della letteratura. Sappiamo tutti che dopo un po’ i critici letterari si interessano meno alla poesia, quanto piuttosto agli altri critici letterari. La cosa decisiva per Lei comunque rimane che Lei, anche se ha solo una Sua religione privata, deve elaborare intellettualmente l’esperienza mistica e perciò ha anche un punto di partenza, che nelle religioni poi diventa una dottrina.
3. Morale
Vi si aggiunge anche un’altra cosa. Dopo l’intelletto entra in gioco anche la Sua volontà che pretende: sì, questo lo voglio, essere così connesso con tutto, essere così felice. Voglio questo senso d’appartenenza, di cui abbiamo una profonda nostalgia. Poiché così si deve vivere, così voglio vivere. Con questa pretesa siamo alla morale. Qui già inizia l’etica. Diciamo spesso che i vari popoli del mondo hanno ciascuno la propria morale, il che mostra che la morale è qualcosa di fatto e fabbricato da noi. Ma se si guarda più attentamente, si vede che ogni morale, sia essa molto primitiva o raffinata ed elaborata, è dappertutto la stessa. Ci comportiamo in modo moralistico con le persone alle quali apparteniamo o alle quali vogliamo appartenere.
I vari sistemi morali stabiliscono chi può appartenere ad un determinato gruppo. Inizia con un gruppo piccolo, quella della famiglia o della stirpe. In molte lingue e culture si designa il proprio gruppo con la stessa identica parola con cui si designa l’essere umano.
Nei confronti di queste persone ci comportiamo in modo moralistico, perché ci appartengono, in contrapposizione agli altri, gli estranei, che non ci appartengono.
Oggigiorno abbiamo varcato una soglia, dopo la quale da nessuna parte è più permesso tracciare questi limiti esclusivi dell’appartenenza. Oggigiorno la nostra appartenenza è illimitata. Per cui ogni limite d’appartenenza che tracciamo è  immorale. Neanche gli animali vanno più esclusi. Tutto il cosmo va incluso in questa appartenenza. Solo così una nuova morale può aiutarci ad andare avanti o avere una sua giustificazione. Riassumiamo: l’intelletto interpreta. La volontà ci impegna da dentro. Noi ci impegniamo volentieri e ce ne rallegriamo: così voglio vivere per appartenere.
4. Rituale
Come terza componente sopraggiungono i sentimenti: i sentimenti vogliono festeggiare l’esperienza mistica. Ci portano ad un rituale. Anche se Lei vuole rimanere nella Sua propria religione privata, Lei festeggia le Sue esperienze mistiche. Supponiamo che Lei abbia avuto un’esperienza mistica su una certa montagna, che Lei abbia avuto lì un’esperienza di vetta.
È facilmente possibile che in occasione di una festività Lei torni ad andare a fare una escursione su quella montagna. Lei vuole tornare a vivere quell’esperienza. Forse Lei non la può più vivere in quel modo, ma Lei va a farvi un pellegrinaggio, per viverla di nuovo. O Lei si ricorda di quel giorno ed ha con ciò iniziato un calendario rituale, anche se solo agli inizi.
Ogni religione inizia con un’esperienza mistica del fondatore. In alcuni casi, come nel caso di Mosè, di Gesù, di Buddha e di Maometto, si può chiaramente risalire a questa esperienza mistica. In altri casi non la si può rilevare così chiaramente, ma noi sappiamo che ogni religione inizia con un’esperienza mistica del fondatore o dei fondatori e che poi si sviluppa in una dottrina, in etica e morale e in rituali.
5. Il cuore di ogni religione è la religione del cuore
Dopo la morte dei fondatori questa esperienza viene trasmessa e portata avanti da una comunità. Senza comunità niente religioni. Noi sappiamo per esperienza quanto sia bello e meraviglioso appartenere. Nel corso del tempo questa comunità trasforma la fonte originaria. Il passaggio dall’esperienza mistica alla comunità religiosa lo si può comparare con l’erompere di una sorgente di acqua viva da una roccia, che dopo un po’ di tempo si gela nell’inverno delle abitudini. La dottrina allora si gela nel dogmatismo, la morale o l’etica si gela nel moralismo, il rituale si gela in ritualismo. Per tutte le religioni sussiste il pericolo dopo un po’ di tempo dell’irrigidimento della trasmissione.
Possiamo fare qualcosa che abbia l’effetto opposto a questo irrigidimento? Sì. Abbiamo sempre nuove occasioni di ritornare alla nostra particolare esperienza mistica, al calore di questa esperienza che scalda il cuore e così possiamo sbrinare dal di dentro la struttura congelata. Ma la struttura non è solo un impedimento, può anche darci molto. Comprendo pienamente se qualcuno vuole lasciarsi alle spalle e rifiuta le religioni così come si mostrano oggi. Ma per mia esperienza devo dire: queste  strutture possono anche darci molto, per esempio sostegno, stabilità, forza, connessione con il passato, guida nella giovinezza e nell’infanzia. Queste tradizioni sono difficili da sostituire.
Ma dobbiamo continuamente rinnovarle, scaldarle e ravvivarle dal cuore. Il cuore di ogni religione è la religione del cuore.
Per questo non possiamo aspettarci dalle religioni che vi entriamo come in un treno e che ci portino come di per sé ad una meta agognata. Invece di essere mossi dobbiamo muoverci noi stessi.
6. Visioni di Dio
Che cosa impedisce che il Divino cresca in noi? Molto spesso è l’immagine di Dio o la visione di Dio che ci propone una certa religione, che ci ha proposto la nostra religione. Sarebbe compito della religione sostenere la spiritualità, invece spesso le intralcia la via. La nostra visione del mondo, come la nostra visione di Dio, è fatta di molte supposizioni che non sono comprese in una visione d’insieme né vengono messe in dubbio, eppure la nostra visione del mondo e di Dio è decisiva per la nostra vita, sia in ciò che accettiamo che in ciò che rifiutiamo. La nostra visione di Dio oggi è influenzata in modo decisivo dalla nostra idea che Dio sia separato da noi.
Le esperienze mistiche rendono “più”, le religioni insegnano. Nell’insegnamento interpretiamo il “più” che abbiamo incontrato nell’esperienza mistica. Questo “Più” è stato molto spesso interpretato ed esercitato come potere. Nell’esperienza mistica incontriamo qualcosa di potente, qualcosa di superpotente. Questa potenza le religioni l’hanno spesso presentata come un dominio. Dio allora è l’altro che ci domina ed è separato da noi.
In questo contesto dobbiamo vedere anche il significato che diamo al peccato. Originariamente peccato, in tedesco, significava deviare e separarsi1. Peccato e separarsi qui hanno una stessa radice. Il peccato ci estranea dal nostro vero sé e dall’esperienza del “Più”. Nelle dottrine delle religioni al peccato sempre più spesso è stato dato un significato giuridico, come se uno che ha il potere sedesse là in alto. Così il peccato diventa una colpa e dev’essere punita.
Noi possiamo vedere questa colpa anche dalla prospettiva dello sviluppo storico, come ciò che nel nostro sviluppo personale non ci ancora è riuscito. Dall’esperienza del peccato cresce poi lo stimolo a cercare ciò che ancora non ci è riuscito per poi realizzarlo.
L’idea di un Dio che ha potere su di noi ci allontana anche dal contenuto originario dei rituali. Ci allontana dal servizio a Dio come servizio alla vita attraverso la celebrazione ed anche attraverso il lavoro. Il servizio a Dio allora assomiglia piuttosto ad un cerimoniale di corte. Queste falsificazioni della visione di Dio ci impediscono di comprendere sempre più profondamente questo “Più”, di realizzarlo, volendolo sempre di più, e di celebrarlo in modo sempre più gioioso e creativo.
7. Vivere in gratitudine
La domanda ora è questa: come possiamo stimolare la nostra crescita spirituale? La risposta è a portata di mano. Correggendo e rinnovando continuamente la nostra visione di Dio attraverso la viva esperienza di Dio. Noi abbiamo quest’esperienza di Dio. Abbiamo quest’esperienza del “Più”. Ci è sempre accessibile. Dobbiamo solo coltivarla. Come facciamo esperienza di questo “Più”? Leggo al riguardo alcune righe di Rilke, tratte dai Sonetti ad Orfeo:
Eppure l’esistenza per noi è ancora incantata; eppure in cento posti è ancora origine. Un gioco
di pure forze che non riesce a toccare nessuno che non si inchini e le apprezzi meravigliato.
Queste righe valgono ancor oggi, sebbene questa poesia inizi con le parole: Tutto ciò ch’è stato raggiunto è minacciato dalla macchina.
Comunque vale: in molti posti l’esistenza è ancora incantata, è per noi ancora origine, un gioco di molte forze, che non può toccare nessuno che non si inginocchi ed ammiri meravigliato.
Possiamo lasciarci coinvolgere da queste forze. Esiste una via spirituale in questa direzione, che personalmente sento più vicina delle altre. La definisco “vivere in gratitudine”, semplicemente questo. Diventiamo consapevoli che questo “Più” è l’essenza di tutto ciò che c’è, la fonte di tutto. Diciamo sempre: c’è questo e c’è questo - tutte cose che l’essenza dà. Tutto ciò che c’è, c’è in quanto lo dà l’essenza. Questa essenza di per sé non è qualcosa, ma è il non, da cui tutto fluisce. È la sorgente divina, è la fonte madre, il fondo In tedesco peccato è “Sünde” che ha una radice simile a “sondern”=separare. In italiano c’è una correlazione simile tra errore ed errare, dove per errore si può intende un deviare dalla verità, o dal vero Sé.
2 Nel testo tedesco ”Es”. Il seguente gioco di parole di David Steindl Rast su “es gibt das”, che letteralmente significa “c’è questo”, dove “es gibt”=c’è, essendo formato dal verbo “geben”=dare può essere letto anche come l’essenza dà, non è riproducibile in italiano. madre di tutto ciò che c’è. È il mistero dal quale veniamo e verso il quale andiamo. Nei confronti di questa sorgente ci viviamo come un regalo. Anche noi abbiamo qualcosa che l’essenza dà. Veniamo donati a noi stessi. Non ci siamo comprati, non abbiamo trattato per averci. Nei momenti peggiori forse non ci vogliamo. Ma che lo vogliamo o meno, ci veniamo regalati. Nei confronti di questo regalo c’è solo una risposta giusta ed appropriata: questa è gratitudine. In questa gratitudine troviamo sempre nuovo ciò che c’è, quel che l’essenza dà: la vita, l’amore, il sapere, la gioia, la musica. Prendere tutto questo così è il nostro modo di dire grazie. Il nostro grazie rifluisce al non, all’essenza che tutto dà. Come teniamo viva in noi questa corrente? Semplicemente ringraziando, semplicemente vivendo l’istante. Per esempio, essendo consapevoli quando apriamo il rubinetto dell’acqua quale dono questo sia per noi. O essendo consapevoli quando accendiamo la luce quale dono sia per noi anche questo. Se ci capita di vivere in zone in cui non c’è né acqua buona né la luce elettrica, diventiamo ben consapevoli che doni siano.
Vivere nella consapevolezza di vedere le altre persone e la natura come un dono è quel che intendo per vivere in gratitudine.
Ora Le leggo ancora una breve poesia di Rilke, poiché inizia con la parola “silenzio” e finisce con la parola “grazie”. Indica che riusciamo a vivere in gratitudine solo se ci lasciamo coinvolgere dal silenzio.
Se almeno una volta ci fosse veramente silenzio.
Se ciò ch’è casuale e approssimativo ammutolisse e il ridere dei vicini, se il fruscio che fanno i miei sensi non mi impedisse così tanto il risveglio, -:
Allora potrei pensarti in un pensiero mille volte maggiore, fino al tuo limite e possederti (solo per la durata di un pensiero) per ridonarti a tutta la vita
come un grazie. Questa è una poesia al “Più”, una preghiera al “Più”.
8. Preghiera
Nella preghiera si uniscono tre ambiti. All’inizio sta il silenzio, la preghiera del silenzio, sul quale non possiamo dire nulla. Ci è solo concesso lasciarci sprofondare in questo silenzio, per incontrare in essa il “Più”. Quanto più sprofondiamo, più e sempre più, tanto più facciamo esperienza di noi stessi in questo “Più”. La capacità di pregare così ce l’ha ciascuno di noi.
Il secondo ambito di questa preghiera è più familiare a noi occidentali. Lo possiamo descrivere come un “vivere secondo la parola di Dio”. Con ciò diciamo che tutto ciò che c’è è parola. Se c’è, parla. Il non si esprime in tutto ciò che esiste. Tutto ciò che esiste è dunque parola divina. Possiamo farci coinvolgere da questa parola in molteplici modi.
Dovunque ci lasciamo coinvolgere dalla parola, da ciò che c’è, e lo trattiamo con riverente rispetto, rispondiamo con un sì alla parola e diciamo questo sì incondizionato. Sì, ci sono. Poi questa parola ci nutre. Ogni parola può nutrirci, se rispondiamo in questo modo. Il terzo ambito, che per molti di noi è relativamente sconosciuto, sebbene ci viviamo dentro in continuazione, si chiama meditatio in actione: trovare Dio nel fare. Troviamo costantemente Dio nel fare. Pensi alle madri, pensi agli insegnanti. Troviamo costantemente Dio nel fare. Il fare è un mondo della preghiera, un mondo della preghiera curata da secoli. Dunque, trovare il “Più”.
Qui si vede che effetto guaritore può avere una tale penetrazione nel “Più”. Quanto guarisca cercare di comprendere sempre più questo “Più”, volendolo sempre più realizzare, celebrandolo sempre più gioiosamente e creativamente in una festa a cui partecipano tutto il mondo e tutte le religioni.
9. La visione condivisa di Dio
Chiunque conosca anche solo un poco il Buddismo, sa quanto nel buddismo sia centrale il silenzio e il tacere. Studiando il buddismo a volte, nei discorsi con il mio maestro, se mi sembrava di aver capito qualcosa gli chiedevo: “E’ così?” Al che egli sempre iniziava a ridere e diceva: “E’ completamente giusto. Peccato però che tu lo dica.”
Nel Cristianesimo dobbiamo dirlo. Apparteniamo alle tradizioni dell’amen, al Giudaismo, al Cristianesimo, all’Islam. Apparteniamo a quelli che fanno riferimento alla parola. La parola è anche un modo di incontrare il “Più”. Questo è il nostro modo. Il terzo modo è quello del comprendere. Questo è l’ambito dell’Induismo. Nell’Induismo non si tratta in prima linea della né parola né del tacere, ma si tratta di comprendere. Yoga significa collegare. Yoga significa comprendere. La pratica spirituale dell’induismo connette la parola ed il silenzio nel comprendere. Cosa significa qui comprendere? Che noi ci dedichiamo alla parola che viene dal silenzio in modo tale che ci porti là da dove viene: nel silenzio. Se ci dedichiamo alla parola e ci lasciamo portare dalla parola nel silenzio, comprendiamo.
Nella nostra “peak experience”, nella nostra esperienza mistica, per tornare ad essa, diciamo: l’essenza è questo. È questo quello che aspettavamo. Come se tutta la nostra vita non avessimo aspettato altro che questo. L’essenza è questo cha accade ora. Sottolineiamo “questo”. Questo è la parola. Qualsiasi cosa ci sia: è questo. I Buddisti dicono: questo è l’essenza. E anche questo è l’essenza. E anche questo.
L’essenza è tutta contenuta nel silenzio, nel nulla, da cui tutto proviene.
Gli Indù dicono: perché litigate? Questo è l’essenza. Solo così la comprendiamo.
Così quindi posso, e con questa frase vorrei concludere, immaginarmi le religioni come un girotondo in cui tutti balliamo. “Questo è l’essenza”, dovunque vogliamo porre l’accento, gli Induisti, i Buddisti, i Cristiani, gli Ebrei, i Mussulmani, tutti, incluse le religioni della Natura. Balliamo tutti lo stesso ballo. Il significato di questo ballo non lo si può percepire da fuori. Poiché da fuori vediamo che i movimenti vanno in direzioni opposte.
Ma se ci teniamo per mano e balliamo insieme agli altri, sentiamo l’unità in questo ballo.
Abbiamo bisogno di condividere questo ballo oggi nel mondo. In esso Dio non è più separato da noi. In esso facciamo esperienza di Dio in noi, e noi in Dio. Questa visione di Dio ci collega tutti.

lunedì 21 ottobre 2019


Risultati immagini per vento
oggi c'è un vento caldo decisamente anomalo, molto più che un'ottobrata...e questa turbinare di foglie e piegarsi di chiome mi sorprende e stupisce.
La vita è stupore, a volte di fronte alla bellezza ,a volte della sofferenza e del dolore, finche riusciamo a stupirci siamo vivi.
Proprio per questo mi discpiaccio vedendo così tante persone perdersi nei cavilli filosofici/teologici ecc. eccitate nel voler dimostrare che quella determinata teoria è meglio di un'altra ,che il loro credo è più vero di quelli altrui e chi più ne ha più ne metta.
La vera pratica meditativa è aprirsi allo stupore del mistero della vita,niente di più e niente di meno, è riuscire a lasciar andare i giochi mentali e fruire del vivere così come si manifesta in questo preciso momento.
In questo giorno mi godo il vento caldo, ieri la nebbia, domani chissà......basta aprirsi,lasciare la mente silenziosa e il miracolo della vita si manifesta!

sabato 12 ottobre 2019



Oggi leggevo le parole di un insegnante Buddhista che, tra le righe(ma non troppo), criticava un altro insegnante e il suo centro.
Critiche forse fondate o forse no , certo poco simpatiche, che terminavano in una auto celebrazione: il nostro centro è unico, come siete fortunati voi  che lo frequentate!
A parte il fatto che ogni essere umano e ogni singola situazione è unica e irripetibile e non c'è qualcosa/qualcuno che è più unico di tutto il resto, mi sembra di sentire le vecchie disquisizioni fra cattolici,ortodossi e protestanti :chì è il vero cristiano? quale la tradizione più autentica?
Se adesso pure i buddhisti ci si mettono ,siamo messi male.
Ricordo la risposta di un maestro tibetano a fronte di una domanda su quale delle quattro scuole fosse la migliore: è come in una zolletta di zucchero, tutti gli spigoli sono dolci nello stesso modo.
Se cominciassimo a capire che ogni scuola/lignaggio/tradizione ha il suo valore e può essere utile a qualcuno....indipendentemente che ci corrisponda o ci piaccia, sarebbe un bel segno di maturità spirituale!

venerdì 4 ottobre 2019

RELAZIONI
Visione basata sulla speranza della eternità
L’eternità è una delle nozioni a cui noi siamo affezionati, che ci incoraggiano nella nostra vita. Sentiamo che finché vi è eternità ci sarà eterna comunicazione. In un modo o nell’altro ci sarà una continuità senza fine a dare significato alle cose: uno sfondo spirituale o un’atmosfera di speranza trascendentale.
Difficilmente riusciamo a capire quanto questo atteggiamento influenzi il nostro modo di affrontare le relazioni. Quando al liceo diventiamo buoni amici di qualcuno, automaticamente ci aspettiamo che l’amicizia duri per sempre. Può accadere che quindici anni dopo aver costruito una capanna con un amico si possa ancora festeggiare il nostro cameratismo osservando con quanta abilità abbiamo costruito la struttura, le giunzioni, i chiodi usati, e così via.
Molte relazioni si sono formate sulla base di qualche dolore comune o qualche compito affrontato insieme. Tendiamo a tenere in gran conto questo comune dolore o compito: li rendiamo il pegno della relazione. Oppure incontriamo qualcuno in situazioni di comune e vivo interesse dove la comunicazione scorre senza ostacoli e celebriamo questa fluidità come se ci proteggesse da un comune nemico. In ogni caso il dolore o la fluidità assumono una qualità leggendaria nella relazione.
‘Essere buoni amici’ ci fa credere di esserlo per sempre. Vi aspettate che la persona con cui siete legati verserà miele sulla vostra tomba; altrimenti vi sentirete ingannati. Lotterete e starete in continua tensione per mantenere splendente la vostra eterna amicizia e ciò produrrà una enorme fatica nella relazione. questo è il modello di relazione presentato dalle tradizioni teistiche, cristiana o indù. Avere una tale relazione è considerato un comportamento come Dio ha comandato o come l’essere più vicini all’esempio stesso dell’ amore di Dio, che è eterno.
Il concetto di eternità è stato frainteso; è stato usato come prova della profondità della nostra relazione, della nostra immortale amicizia. Tendiamo a credere che qualcosa abbia da durare per sempre e perciò la veneriamo come qualcuno potrebbe venerare un pezzo di filo di ferro arrugginito, famoso per essere stato parte del recinto di una nota battaglia della prima guerra mondiale. Noi lo veneriamo per il nostro concetto di eternità, piuttosto che per il suo significato. Ironicamente, esso diventa in realtà una profonda testimonianza proprio per la fondamentale verità dell’impermanenza.
Nelle società influenzate in modo assai profondo da un punto di vista non teistico come quelle buddhiste o confuciane, la relazione è più un modo di comportarsi e di integrità che non l’approccio ad un modello di divina eternità. Vi è minor senso di colpa, ma rimane un senso di rettitudine o di sincerità. Nel contesto borghese invece, la relazione sembra basarsi su un modello derivato da antiche strutture di baratto. Nella situazione commerciale del baratto c’è più coinvolgimento che non in quelle in cui c’è scambio monetario: si dà qualcosa di valore e si riceve qualcosa di valore in cambio. Ma questo approccio ha ancora come sfondo il concetto di eternità e la venerazione di antichi modelli di relazione.
Visione basata sulla paura della morte
Sfiducia e incertezza nell’eternità sorgono quando incominciamo a pensare a ciò che, indipendentemente dalla nostra volontà, potrebbe andare storto nella relazione - o ciò che potrebbe andar bene. Vi è un’ombra di inevitabile caos o morte. Temendo lo sviluppo indipendente e spontaneo della relazione, noi cerchiamo di ignorare le nostre effettive emozioni e la nostra diretta volontà. Le persone coraggiose lo fanno quasi consciamente caricando la relazione di un senso di missione o di dogma. Le persone codarde ci si confrontano invece secondo un travisamento inconscio.
In generale, la strategia coraggiosa ha meno successo di quella dei codardi nel creare una relazione ‘ideale’. Questo approccio dogmatico può aver successo solo riaffermando continuamente a un amico o un partner che una posizione fondamentalmente illogica, è logicamente sostenibile. È richiesto un lavoro di costante manutenzione della magnifica costruzione. La persona meno valorosa ma più diligente compie invece l’intera impresa senza neppure confrontarsi col partner sulle più importanti questioni: scarica continuamente il senso di morte su una miriade di piccole cose. Il partner si dimentica di rimettere a posto il coperchio della bottiglia di ketchup, oppure spreme il tubo del dentifricio dalla parte sbagliata. La colpa sta in tutte queste piccole cose.
A dispetto delle credenze filosofiche o religiose nell’eternità, vi è un senso di costante minaccia di morte, a cui la relazione è definitivamente condannata. Coraggiosi o timorosi, noi siamo intrappolati in questa data situazione, mettendo continue toppe per sopravvivere.
Al di là di speranza e paura
Dare un gran peso alla relazione è letale: come se, nel tagliare una cipolla, stessimo più attenti al coltello che all’atto di tagliare. È probabile che ci taglieremo le dita. Quando cominciamo a realizzare ciò, il senso di impotenza ci fa sussultare. Punti di vista o atteggiamenti non ci aiutano. Non sono altro che un guscio. La visione teistica che crede ingenuamente nell’eternità e la visione borghese delle buone maniere e della dignità sono entrambi solo dei giochi convenzionali lontani dalla concretezza della situazione. Gli adagi sulle relazioni, tipo ‘la pazienza è una virtù’ oppure ‘la morte piuttosto che il disonore’, non sono solo i prodotti della convenzione; essi sono in se stessi puramente convenzionali.
L’idea di relazione deve cadere a pezzi. Quando realizziamo che la vita è l’espressione della morte e la morte è l’espressione della vita, che la continuità non può esistere senza la discontinuità, allora non vi è più bisogno di afferrarci ad una ed aver paura dell’altra. Non c’è più nessuna base per i coraggiosi o per i vigliacchi. Si vede che la relazione è l’assenza di ogni e qualsiasi punto di vista.
Potremmo pensare che una tale relazione è solo per coloro che sono spiritualmente avanzati, ma in realtà questo è proprio un fatto normale e ordinario. Ogni punto di riferimento concettuale diventa distruttivo. In realtà noi cominciamo a sospettare che la relazione non esista. Ma non c’è bisogno di preoccuparsi: questa non-esistenza continua come una potente base generatrice di ulteriori relazioni. Tale accortezza è ancora un punto di vista, ma è un punto aperto alle sorprese, non è come vivere nella speranza di un’eternità. È anche diversa da una totale sfiducia che non permette al candore della relazione di esprimersi. Se un patto di fiducia genera ulteriore sfiducia, la cautela nella fiducia può invece fornire un enorme calore e genuine relazioni

DA INSEGNAMENTI DI TRUNGPA RIMPOCHE

giovedì 3 ottobre 2019

Leggevo di un insegnante buddhista che dopo anni ha deciso ,nell'entusiamo degli allievi, di non mettere più gli abiti monastici orientali durante gli insegnamenti e la meditazione; in realtà lo hanno già fatto in tanti( me compreso) anche se rimane un gesto simbolicamente interessante.
Staccarci da una appartenenza "culturalmente" determinata è un buon segno di apertura e di inculturazione del Buddhismo nella nostra realtà(che col tibet.il giappone ecc.non ha nulla a che fare ), è  un simbolo, nulla più.
In fondo, se è vero che l'abito non fa il monaco ,neppure il non-abito lo fa, o meglio non è necessariamente segno di reale apertura, non settarismo ecc.
Magari bastasse togliersi un abito!
Purtroppo insegnanti che già hanno fatto quel passo non hanno cambiato di una virgola i loro atteggiamenti assolutizzanti e autoreferenziali, anzi vi hanno aggiunto l'autocompiacimento del proprio gesto.
Il sentiero sipituale è una via stretta(come dicono i Vangeli) e il rischio di smarrire la strada o di mentire a se stessi è sempre presente; ben vengano questi gesti ,ma stiamo attenti che corrispondano ad una reale conversione del cuore.

nuovi audio sui Vangeli.....poi usciranno nella versione Brujo con le musiche di sottofondo....questa è la versione base appena registrata.....