Non so se avete seguito sui giornali la triste vicenda del Monastero di Bose,ove ,a seguito di insanabili tensioni interne e chissà cos'altro, è stata chiesta una sorta di ispezione da parte del Vaticano che ha portato all'espulsione dal monastero del fondatore Enzo Bianchi e di altri tre monaci .
Ovviamente non conosco i retroscena della storia e non ho nessuna voglia di parteggiare per gli uni o gli altri(come già sta accadendo) ma solo riflettere sulla tristezza ,tutta umana, della vicenda.
Padri spirituali e figli spirituali che si disconoscono a vicenda, compagni spirituali che non si sopportano più e chi più ne ha più ne metta, nulla di nuovo, cose viste mille volte.
Non cadiamo nella solita semplificazione: i soliti giochi do potere dei cattolici, perchè è già successo anche in altre tradizioni, Buddhismo compreso.
Di gruppi di Dharma che sono esplosi o implosi, con cacciata di insegnanti, guerre intestine fra allievi la storia è piena.
Bose, luogo simbolo di un cristianesimo aperto e dialogante, ci aveva illuso di essere al di sopra di certe piccolezze e invece, eccole lì.
Comunque vada a finire, con una forzata riconciliazione, con una nuova fondazione da parte dei "cacciati" ,sarà comunque una ferita difficile da rimarginare.
Tutto questo ci faccia riflettere sulla nostra fragilità, sulla nostra insipenza umana e spirituale, anche dopo una vita di preghiera o meditazione, e ci renda più attenti, umili e compassionevoli, con noi stessi e con gli altri.
Homo sum, humani nihil a me alienum puto(Sono un uomo,nulla che sia umano mi è estraneo)
giovedì 28 maggio 2020
domenica 24 maggio 2020
sabato 16 maggio 2020
Dilgo Khyentze era un uomo
“grande” oltre che un grande uomo, aveva un fisico imponente , alto e
corpulento pareva una montagna.
Una montagna di pura
gentilezza e forza che si esprimeva in quei sorrisi incommensurabili che ti
donava e in quegli sguardi intensi dove una luce pareva scoccare fra le
palpebre pesanti.
Era uno dei Lama più
conosciuti della tradizione Niyngmapa, e dopo la morte di Dudjom Rimpoche ne divenne il capo, era riconoscibilissimo,
col suo passo pesante e suoi due metri di altezza.
Eravamo andati a visitare un
Tempio in Nepal quando davanti all’ingresso trovammo un Naljorpa ( un eremita
tibetano, il corrispettivo dei Sadhu Hindu) che lo riconobbe, guardò dapprima noi,
con uno sguardo disgustato, poi lui con atteggiamento di sfida, prese da terra
un po’ si sterco e se lo mise in bocca dicendo: “ecco….grande Lama: solamente un gusto! volendogli dimostrare il suo completo non attaccamento e la più perfetta
equanimità.
Rimpoche lo guardò non
gentilezza, sorrise, estrasse dalla borsa un dolcetto e se lo mise in bocca “
solamente un gusto!” ribattè ,facendoci segno d andare oltre, mente l’asceta
rimaneva lì con aria stupita.
Era solito spiazzarci
,togliendoci ogni punto di riferimento, ogni pseudo certezza acquisita ,per
liberarci da ogni legaccio mentale.
Quando fui sul punto di
tornare a casa, ebbi un colloquio personale con lui e gli chiesi il permesso
per creare un centro Niyngmapa in Italia , mi guardò con aria stupita”
niyngmapa?, ma significa antichi…e quindi vicini alle origini ,ma anche andati un
po’ a male! “ rise di gusto” lascia stare le etichette, se te la senti insegna
quello che hai imparato qui, ma senza schematismi, insegna a meditare e basta,
non è neanche necessario il termine Buddhista….lascia stare, devi essere un
Buddha e non un Buddhista!”.
Prese la tazza del tè, ne
bevve un sorso “devi offrire da bere il tè,non la tazza! Il contenitore non è
importante”
Ero spiazzato , se ne
accorse e mi sussurrò in un orecchio:” tu pensi di essere solo un Buddhista? Un
Niyngmapa?, Beh allora se un po’ limitatino….” Rise di nuovo :” bisogna essere
spaziosi come il cielo, senza limiti, questa è l’essenza della pratica”.
Fece un gesto chiaro e
definitivo….era tutto, potevo andare.
venerdì 8 maggio 2020
UN INCONTRO
Assisi, un agosto caldo e appiccicoso, sono
stato invitato alla “Cittadella” per un convegno interreligioso con relatori
prestigiosi, io devo rappresentare il Buddhismo Italiano
Sono cinque giorni di
relazioni, lectio magistralis, tavole rotonde e seminari a piccolo gruppo,
praticamente un’orgia di idee, pensieri, discussioni.
Non so neanche io perché ,
ma scopro che nel primo pomeriggio ci sono un paio di ore libere e chiedo agli
organizzatori se posso infilarci un
momento di meditazione, mi lasciano fare , concedendomi una ampia sala.
Non certo per la mia bravura
e tantomeno per la mia fama, ma la sala si riempie, ogni giorno un centinaio di
partecipanti al convegno viene a sedersi in silenzio per un’ora.
Giorno dopo giorno, per
tutta la durata del convegno , uomini e donne, religiosi e laici vengono a
sedersi per gustare un po’ si silenzio.
L’ultimo giorno, sono fuori
dall’auditorium dove un relatore sta dottamente parlando degli orizzonti
dell’ecumenismo, una signora sconosciuta mi si avvicina e mi dice: “ quante
parole…troppe! “ sorride, quasi
imbarazzata : “ volevo ringraziarla del silenzio che ci ha donato, è stato un
momento prezioso!” ,china un poco la
testa in una sorta di inchino, si volta e rientra nella sala.
Non l’ho più rivista, ma la
sua semplice gratitudine è rimasta con me.
martedì 5 maggio 2020
Questo doveva essere su Vivere Consapevolmente ma è stato tagliato dall'editore
GRATUITA’
E PRODUTTIVITA’- IL LAVORO COME VIA
E’
possibile pensare all’attività lavorativa ,non solo realtà frustrante ,ma come
via di realizzazione? La regola di San
Benedetto indica la via dell’ora et
Labora, laddove il lavoro è ugualmente importante della preghiera e ,anzi, ne è
parte integrante, Il Maestro Zen Hyakujo
disse:un giorno senza lavoro, un giorno senza cibo, facendo sì che il
monachesimo giapponese non si fondasse pù sull’elemosina ,ma sul lavoro per
l’autosostentamento, lavoro svolto con attenzione meditativa , in modo da
diventare ,a tutti gli effetti una continuazione della pratica.
Ora
viviamo i una società e in ambienti altamente competitivi e con una richiesta
di produttività ,spesso, esasperata ,possiamo, nonostante tutto, di rendere il
luogo di lavoro un luogo di pratica?
Se
la meditazione è uno stato della mente
,aperta e totalmente consapevole, questo stato mentale può essere
utilizzato in qualunque situazione, lavoro compreso.
Se
io entro in ufficio o in fabbrica con una mente fresca, curiosa, aperta, posso
lavorare in un’ottica di gratuità, nel senso che mentre lavoro,lavoro, totalmente assorbito
dall’azione, come dal respiro seduto in meditazione, senza pensieri sul passato
o sul futuro , completamente attento all’attimo presente.
Questo
tipo di atteggiamento lavorativo trasforma in pratica il mio fare, togliendo
ogni stress e frustrazione(prodotti dalla mente discriminante),
conseguentemente sono più sereno, lavoro meglio e finisco anche per essere più
produttivo.
Lavorare
in modo equanime, gratuito, senza un fine al di là del lavoro stesso è una
meditazione in movimento.
Sicuramente
il lavoro manuale può risultare inizialmente più adatto a questo tipo di
pratica, ma con l’esperienza può essere allargato ad ogni tipologia lavorativa, anche le più
complesse o di maggiore responsabilità
BREVE
MEDITAZIONE SUL LAVORO
Proviamo
ad utilizzare lo spirito meditativo svolgendo qualche semplice lavoro, ad
esempio spazzare il giardino, poi,pian piano lo porteremo in qualunque
attività.
Dapprima
prendiamo alcuni respiri profondi e consapevoli, poi prendiamo la scopa o il rastrello, sentiamo la
consistenza del legno del manico, percepiamo se è liscio o ruvido, percepiamo
la posizione del corpo, quindi cominciamo a raccogliere le foglie, cerchiamo di
ritmare il movimento con la respirazione, mantenendoci completamente
concentrati sul movimento e sul respiro.
Ogni
volta che percepiamo dei pensieri sorgere , riconosciamoli ,poi lasciamoli
andare ,ritornando a portare attenzione al movimento e al respiro.
Per
alcuni può essere d’aiuto ripetere col respiro e movimento frasi del tipo:”
inspirando spazzo le foglie ,espirando
allontano ogni negatività “ oppure”
inspiro e mi senti vivo, espiro e ripulisco l’intero mondo”
sabato 2 maggio 2020
Non so che dire, comunque la clausura mi spinge a riflettere e di conseguenza a scrivere,.Se è vero ,come scrive Enzo Bianchi ,che il racconto è un dono, beh ho deciso di donare pure io e raccontare pezzi di vita.
In altre parole mi sono messo a scrivere un nuovo libro(un altro?) ,questa volta autobiografico, per raccontare tutti gli incontri più importanti della mia vita.
Se noi siamo fatti di incontri ,come diceva padre Cornelio, io sono tutti questi incontri, quindi narrandoli mi metto a nudo.
E'' un lavoro che smuove emozioni, oggi scrivendo il capitolo sul mio primo maestro, mi sono trovato con gli occhi umidi.
Questo è ciò che ho iniziato, magari metterò qualche assaggio in questo spazio più avanti.
Non so se a qualcuno interesserà o servirà, sicuramente serve a me!
ecco il pezzo di Enzo Bianchi sul narrare:
In altre parole mi sono messo a scrivere un nuovo libro(un altro?) ,questa volta autobiografico, per raccontare tutti gli incontri più importanti della mia vita.
Se noi siamo fatti di incontri ,come diceva padre Cornelio, io sono tutti questi incontri, quindi narrandoli mi metto a nudo.
E'' un lavoro che smuove emozioni, oggi scrivendo il capitolo sul mio primo maestro, mi sono trovato con gli occhi umidi.
Questo è ciò che ho iniziato, magari metterò qualche assaggio in questo spazio più avanti.
Non so se a qualcuno interesserà o servirà, sicuramente serve a me!
ecco il pezzo di Enzo Bianchi sul narrare:
SE IL RACCONTO E' UN DONO
Siamo ormai abituati al bollettino televisivo quotidiano delle vittime dell’epidemia: contagiati, ricoverati, entrati in terapia intensiva, morti e guariti. L’attenzione è catturata dalle cifre in aumento o diminuzione, destando sentimenti di ansietà o sollievo. Ma il grande rischio di ogni “cronaca” è quello di fermarsi ai numeri, impedendo la consapevolezza che ogni umano ha un volto preciso, una storia, degli affetti e che di ciascuno si deve fare memoria: come scriveva García Márquez, “la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”.
Sarebbe dunque necessario che, oltre ai bollettini, si potessero ascoltare narrazioni dei colpiti e dei guariti dal virus. Narrare significa proprio dare un volto alle persone, che altrimenti rischiano di essere solo numeri; significa dare senso a ciò che accade, rendendo le parole non solo informative ma capaci di umanizzare esistenze anonime. Non ci è dato di rivivere la vita di un altro, ma solo un suo frammento; e se lo riviviamo interiormente, l’altro non ci è più estraneo.
Siamo ormai abituati al bollettino televisivo quotidiano delle vittime dell’epidemia: contagiati, ricoverati, entrati in terapia intensiva, morti e guariti. L’attenzione è catturata dalle cifre in aumento o diminuzione, destando sentimenti di ansietà o sollievo. Ma il grande rischio di ogni “cronaca” è quello di fermarsi ai numeri, impedendo la consapevolezza che ogni umano ha un volto preciso, una storia, degli affetti e che di ciascuno si deve fare memoria: come scriveva García Márquez, “la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”.
Sarebbe dunque necessario che, oltre ai bollettini, si potessero ascoltare narrazioni dei colpiti e dei guariti dal virus. Narrare significa proprio dare un volto alle persone, che altrimenti rischiano di essere solo numeri; significa dare senso a ciò che accade, rendendo le parole non solo informative ma capaci di umanizzare esistenze anonime. Non ci è dato di rivivere la vita di un altro, ma solo un suo frammento; e se lo riviviamo interiormente, l’altro non ci è più estraneo.
L’uomo è un essere narrante. Quando narra fa memoria, rivive e fa rivivere eventi, apre una strada verso il futuro. Molti hanno ascoltato il testo della lettera indirizzata ai suoi familiari e consegnata a una suora infermiera da un anziano ricoverato, quando ha compreso di avere davanti a sé la via della solitudine e della morte. Questa narrazione è diventata una grande testimonianza: monito per quanti restano, domanda di compassione per chi è vecchio. Si è rivelata capace di penetrare i nostri cuori, muovendoli a interrogarsi e a prepararsi ad agire diversamente. Ma quante altre narrazioni potrebbero essere donate in questi giorni a tutti, dai bambini ai vecchi. Sarebbero veri e propri esercizi al racconto della vita, della capacità di amore e di cura, della possibilità di sperare.
Quanto alla potenza performativa dei racconti, non è per noi difficile cogliere come tutta la nostra cultura, nelle sue radici ebraiche e quindi cristiane, abbia come fondamento la memoria e il racconto. Anche Dio è colui che ci è stato narrato da Abramo, da Mosè, dai profeti e da Gesù: non un Dio dei filosofi ma un Dio narrato da chi lo ha ascoltato.
Quanto alla potenza performativa dei racconti, non è per noi difficile cogliere come tutta la nostra cultura, nelle sue radici ebraiche e quindi cristiane, abbia come fondamento la memoria e il racconto. Anche Dio è colui che ci è stato narrato da Abramo, da Mosè, dai profeti e da Gesù: non un Dio dei filosofi ma un Dio narrato da chi lo ha ascoltato.
Ma in questo breve spazio voglio riferire parte di un racconto chassidico: “Quando rabbi Israel Baal Shem Tov voleva ottenere una grazia da Dio, andava in un luogo solitario nel bosco, accendeva un fuoco e pronunciava una preghiera particolare. E veniva esaudito. Alcune generazioni dopo, rabbi Israel di Rizin voleva anch’egli chiedere una grazia, ma non ricordava il luogo particolare, né sapeva accendere il fuoco, né rammentava la preghiera del suo maestro. Allora disse a Dio: ‘Non so ritrovare il luogo, non so accendere il fuoco, non ricordo la preghiera, ma posso raccontarti la storia e questo dovrebbe bastarti’. Ciò fu sufficiente a Dio, il quale esaudì la preghiera del rabbi, perché egli adora i racconti”.
Ciò che vale per Dio dovrebbe valere anche per noi: raccontiamo dunque ai bambini per insegnare loro a vivere, agli anziani per consolarli.
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