un testo che dice tutto.......non saprei cosa aggiungere!
Come
il Divino cresce in noi
David
Steindl-Rast
Forse è appropriato,
col tema “Come il Divino cresce in noi”, iniziare con un momento di silenzio,
in cui Lei stesso o Lei stessa entra in relazione con quel che intende per
“Divino”.
In questo tema per me
la parola decisiva è “in noi”. Io parlerò in base alla mia esperienza e mi
rivolgerò alla Sua esperienza del tutto personale. Faccio per così dire appello
alla Sua esperienza, perché su di un tema così si può parlare solo per
esperienza. Spero dunque che Lei verifichi sempre in base alla propria
esperienza quel che dico qui.
Vorrei scorrere il
titolo parola per parola. Con “Divino” intendo ciò che Dorothee Soelle chiama
il “Più”. Più e sempre più, più in tutte le dimensioni. La parola “Dio” e
“Divino” è così appesantito, che in realtà dobbiamo trovare un’altra parola.
“Più” è molto appropriato. Non soltanto più allo stesso livello, bensì più a
sempre nuovi livelli, in sempre nuove dimensioni. È questo “Più” che sta cuore
a noi come esseri umani. Vogliamo trovare significato, ma solo se entriamo in
relazione con questo “Più” possiamo trovare significato.
Cosa intendo con il
“Divino”? In noi personalmente, ma anche nel mondo nel suo insieme - anche se
non dovunque allo stesso modo - stiamo attualmente varcando a tutti i livelli
la soglia di una nuova comprensione di questo “Più”. Sta irrompendo qualcosa di
totalmente nuovo. Qui tratteremo in parte anche di questo.
Per quel che riguarda
la “crescita in noi”, come può crescere questo “Più” in noi?
Tramite la nostra
consapevolezza di questo “Più”, se ne diventiamo consapevoli e tramite la
nostra relazione con esso, se lasciamo che ci coinvolga. Si tratta dunque di
due cose: che ne diventiamo consapevoli e che lasciamo che ci coinvolga. La
prima cosa, la consapevolezza, è più l’ambito della spiritualità. Il lasciarsi
coinvolgere è più l’ambito della religione. Le due cose sono naturalmente
inseparabili, poiché la consapevolezza e il lasciarsi coinvolgere si
appartengono nel modo più stretto. Ma
spiritualità e religione possono essere distinte. Non possono essere separate,
ma distinte. Da ciò dipende anche il nostro procedimento.
1. Spiritualità
Tratterò il tema
spiritualità da quattro punti di vista.
1. Cos’è spiritualità?
2. In che relazione sta
la spiritualità con la religione?
3. Cosa inibisce o
impedisce la crescita di questo “Più” in noi, del Divino in noi?
4. Come possiamo
stimolare questa crescita? Quale può essere il nostro apporto consapevole per
stimolare questa crescita in noi?
Ora per il primo punto:
Cos’è spiritualità? Qui proporrei che prendiamo come punto di partenza la
parola spiritualità, che deriva dal latino “spiritus”. Spirito originariamente
aveva il significato di alito di vento, respiro vitale. Proprio come “pneuma”,
la parola greca, e “ruach”, la parola ebraica che la precede. Significano tutte
respiro vitale e in senso traslato vitalità. Così io vedo la spiritualità come
un aumentata vitalità, e cioè in tutti gli ambiti della vita. È un ampliamento
del flusso della nostra vitalità. Noi non siamo sempre ugualmente vitali. La
maggior parte di noi la mattina è meno vitali che la sera. Ma ci sono anche
quelli che la mattina sono ultravitali e che in questo modo fanno disperare gli
altri. Abbiamo diversi modi di essere vitali. Anche nelle varie stagioni della
nostra vita abbiamo diversi modi di essere vitali. Se siamo vitali sotto ogni
aspetto – e ci sono momenti nella nostra vita in cui siamo veramente così
vitali -, allora possiamo come pregustare quel che potrebbe significare una
spiritualità pienamente vissuta.
Questi attimi accadono
in situazioni totalmente diverse e sono sempre sorprendenti.
Possiamo prepararci a
questi momenti, ma sono sempre imprevedibili.
Qui sento che devo
parlare di Abraham Maslow, che dai più è conosciuto per le sue gerarchie dei
valori. Ma egli ha scoperto qualcosa ch’è ancora molto più importante. Le
chiama e le descrive come “peak experiences”, in italiano esperienze del picco
o esperienze di realizzazione. Vale la pena qui fare un piccolo excursus e dire
qualcosa di più riguardo a come Maslow verso la metà del XX secolo ha fatto
questa scoperta. Si è posto la domanda: cos’è che rende così vitali certe
persone? Cosa le rende così creative? Cosa le rende così sane? Cosa le rende
dei veri e propri esseri umani, così come si desidera che gli esseri umani siano?
Egli dice: niente nella mia formazione psicologica mi aveva preparato a
rispondere a questa domanda. Era sempre solo occupato a trattare malattie
mentali e mai orientato a questo: cosa rende così sano un essere umano? Ha
speso degli anni occupandosi di questa domanda ed è giunto ad un risultato per
lui molto sorprendente. Tutte le persone così vitali, quelle viventi come pure
quelle morte che egli conosceva solo dai loro scritti, hanno in comune una
cosa: hanno esperienze mistiche. Questa descrizione non ha avuto una buona
risonanza nella letteratura psicologica. Egli ha quindi presto cambiato questa
espressione in “peak experiences”. Ma per tutta la vita è rimasto fedele al
fatto che non c’è differenza tra “peak experiences” e l’esperienza mistica. Si
tratta della stessa cosa.
Qual è l’elemento
decisivo in una tale esperienza di vetta? Tutti noi ce l’abbiamo. Nel corso
delle sue indagini Maslow ha constatato che non solo persone straordinarie
hanno queste esperienze, ma che tutte le persone – nei limiti di quanto in
psicologia si possa generalizzare – hanno queste esperienze. Egli però ha anche
constatato che la maggior parte delle persone poi le reprimono. Alcune persone
interrogate al riguardo gli hanno detto di non averne mai parlato a nessuno,
perché le consideravano un momento di pazzia. Maslow disse al riguardo: per
queste persone forse era stato l’unico istante in cui non erano pazze. Ora La
prego di ricordarsi di una tale esperienza
di vetta. Non dev’essere una vetta particolarmente alta. Dipende da quanto alto
è l’altipiano da cui Lei viene. Si tratta solo di questo, che Lei abbia un
punto di riferimento nella propria esperienza di vita. Citerò quattro punti che
caratterizzano un’esperienza di vetta. Ma non si preoccupi se nel suo caso non
ci sono tutti. Questi sono piuttosto dei punti di riferimento.
Il primo punto sarebbe:
il tempo è fermo. Il che può significare che è passata un’ora ma a me sembrano
pochi minuti. Può anche darsi che l’esperienza sia durata solo pochi secondi e
che in quell’arco di tempo è avvenuto qualcosa che Le sono sembrate ore. In
queste circostanze la consapevolezza del tempo è come cancellata. La cosa
decisiva è: siamo nel qui ed ora, nell’istante, siamo totalmente presenti.
Questo è un punto importante di queste “peak experiences”.
Secondo, abbiamo un
infinito senso d’appartenenza. Non solo verso tutte le persone, ma anche verso
gli animali e le piante, i sassi, le stelle, il mare. Se abbiamo un esperienza
di questo tipo fuori nella natura, ci sciogliamo nelle nuvole e negli alberi.
Siamo uno con la natura. Ci sentiamo uniti a tutto. I stretti confini dell’io
sono infranti, sfuocati o cancellati. Terzo, in questi istanti diciamo a
qualcosa incondizionatamente sì. Un sì a tutto ciò che è, così com’è. Non
giudichiamo, diciamo semplicemente sì. Guardiamo a tutto ciò che di solito
chiamiamo buono, che di solito chiamiamo cattivo. Possiamo guardare a tutto,
com’è. Rimane buono, rimane cattivo, ma possiamo dirgli sì, così com’è. Diciamo
sì a tutto ciò che è.
E infine siamo riempiti
da un estremo senso di felicità. Più che felicità. Di solito diciamo che è
felicità se avviene qualcosa di buono. Nella “peak experience” l’esperienza
della felicità è indipendente da quel che avviene. A volte abbiamo queste
esperienze nel bel mezzo di situazioni terribili. In mezzo ad un bombardamento
o nel caso di una morte. È una sensazione di felicità che non ha più quasi
niente a che vedere con ciò che di solito chiamiamo felicità, perché la
oltrepassa di molto.
Questi dunque sono i
miei punti, senza che debbano per forza essere in questa sequenza:
1. Il tempo sta fermo,
siamo nel qui ed ora.
2. Un’appartenenza
illimitata.
3. Un sì a tutto ciò
che è, così com’è, senza giudizio.
4. Un estremo senso di
felicità.
Questi elementi sono
secondo Maslow anche tipici dell’esperienza mistica.
Ora non occorre che lei
si preoccupi e dica: ma io non sono un mistico. Il mistico non è una persona
speciale, bensì ogni persona è un mistico speciale.
Come si distinguono
allora i grandi mistici dalla persona comune? Per il fatto che lasciano che
questa esperienza di vita confluisca in tutto ciò che fanno. Altri dimenticano
queste esperienze o ne reprimono il ricordo. Se si coltiva l’esperienza mistica
e la si lascia fluire nella vita, allora è qualcosa che forma la vita. Questo è
il pieno significato di spiritualità. Nella misura in cui noi lasciamo fluire
nella nostra vita quotidiana questa esperienza-del-tutto-uno, in questa misura
siamo veramente vitali, contenti e presenti.
2. Religione
Come si giunge da
questa vitalità, da questa vitalità della spiritualità che ci rende così
felici, alla religione così spesso oppressiva e così spesso ben lontana dal
renderci felici? Dalla spiritualità giungiamo inevitabilmente alla religione.
Però non dico: a questa o quella religione. Qui non ho parlato delle religioni.
Parlo della religione. Ogni essere umano ha questa religione. Ora proverò a
mostrarLe, appellandomi di nuovo alla Sua esperienza, come si giunge
dall’esperienza mistica alla religione, e da qui forse alle religioni.
Iniziamo con la parola
religione. La parola latina per religione, religo, significa ricollegare, un
ricollegamento all’esperienza mistica. Infatti l’esperienza mistica è creativa
– crea la religione. Ora guardiamo più da vicino alla sua esperienza mistica,
questa “peak experience”. Cosa succede un momento dopo? Nell’esperienza stessa
siamo semplicemente presenti. Non pensiamo a nulla e non vogliamo nulla.
Sentiamo questa beatitudine, siamo semplicemente presenti. Ma nell’istante
successivo già viene il nostro intelletto che chiede: ma cos’è stato questo?
Che ci poniamo questa domanda è inevitabile. Non possiamo impedirlo. Vi diamo
una risposta, originariamente una
risposta mistica. Rispondiamo con un’immagine, in contrapposizione alla teologia, che cerca una
risposta convincente dal punto di vista della ragione. Il mito precede di molto
la teologia. Ma comunque noi in un modo o nell’altro reagiamo alla domanda:
cos’è accaduto qui? Anche se Lei non vuole avere niente a che fare con la
religione, in un modo o nell’altro risponde comunque a questa domanda. Il suo
intelletto le chiede una risposta riguardo a quel ch’è accaduto. Questo
procedimento è dunque inevitabile. Da questa risposta si sviluppa la dottrina.
Il mito stesso implica già una dottrina, spesso con un contenuto molto più
ricco della teologia. Io vedo la relazione tra mito e teologia simile alla
relazione tra poesia e critica della letteratura. Sappiamo tutti che dopo un
po’ i critici letterari si interessano meno alla poesia, quanto piuttosto agli
altri critici letterari. La cosa decisiva per Lei comunque rimane che Lei,
anche se ha solo una Sua religione privata, deve elaborare intellettualmente
l’esperienza mistica e perciò ha anche un punto di partenza, che nelle religioni
poi diventa una dottrina.
3. Morale
Vi si aggiunge anche
un’altra cosa. Dopo l’intelletto entra in gioco anche la Sua volontà che
pretende: sì, questo lo voglio, essere così connesso con tutto, essere così
felice. Voglio questo senso d’appartenenza, di cui abbiamo una profonda
nostalgia. Poiché così si deve vivere, così voglio vivere. Con questa pretesa
siamo alla morale. Qui già inizia l’etica. Diciamo spesso che i vari popoli del
mondo hanno ciascuno la propria morale, il che mostra che la morale è qualcosa
di fatto e fabbricato da noi. Ma se si guarda più attentamente, si vede che
ogni morale, sia essa molto primitiva o raffinata ed elaborata, è dappertutto
la stessa. Ci comportiamo in modo moralistico con le persone alle quali
apparteniamo o alle quali vogliamo appartenere.
I vari sistemi morali
stabiliscono chi può appartenere ad un determinato gruppo. Inizia con un gruppo
piccolo, quella della famiglia o della stirpe. In molte lingue e culture si
designa il proprio gruppo con la stessa identica parola con cui si designa
l’essere umano.
Nei confronti di queste
persone ci comportiamo in modo moralistico, perché ci appartengono, in
contrapposizione agli altri, gli estranei, che non ci appartengono.
Oggigiorno abbiamo
varcato una soglia, dopo la quale da nessuna parte è più permesso tracciare
questi limiti esclusivi dell’appartenenza. Oggigiorno la nostra appartenenza è
illimitata. Per cui ogni limite d’appartenenza che tracciamo è immorale. Neanche gli animali vanno più
esclusi. Tutto il cosmo va incluso in questa appartenenza. Solo così una nuova
morale può aiutarci ad andare avanti o avere una sua giustificazione.
Riassumiamo: l’intelletto interpreta. La volontà ci impegna da dentro. Noi ci
impegniamo volentieri e ce ne rallegriamo: così voglio vivere per appartenere.
4. Rituale
Come terza componente
sopraggiungono i sentimenti: i sentimenti vogliono festeggiare l’esperienza
mistica. Ci portano ad un rituale. Anche se Lei vuole rimanere nella Sua
propria religione privata, Lei festeggia le Sue esperienze mistiche. Supponiamo
che Lei abbia avuto un’esperienza mistica su una certa montagna, che Lei abbia
avuto lì un’esperienza di vetta.
È facilmente possibile
che in occasione di una festività Lei torni ad andare a fare una escursione su
quella montagna. Lei vuole tornare a vivere quell’esperienza. Forse Lei non la
può più vivere in quel modo, ma Lei va a farvi un pellegrinaggio, per viverla
di nuovo. O Lei si ricorda di quel giorno ed ha con ciò iniziato un calendario
rituale, anche se solo agli inizi.
Ogni religione inizia
con un’esperienza mistica del fondatore. In alcuni casi, come nel caso di Mosè,
di Gesù, di Buddha e di Maometto, si può chiaramente risalire a questa
esperienza mistica. In altri casi non la si può rilevare così chiaramente, ma
noi sappiamo che ogni religione inizia con un’esperienza mistica del fondatore
o dei fondatori e che poi si sviluppa in una dottrina, in etica e morale e in
rituali.
5. Il cuore di ogni
religione è la religione del cuore
Dopo la morte dei
fondatori questa esperienza viene trasmessa e portata avanti da una comunità.
Senza comunità niente religioni. Noi sappiamo per esperienza quanto sia bello e
meraviglioso appartenere. Nel corso del tempo questa comunità trasforma la
fonte originaria. Il passaggio dall’esperienza mistica alla comunità religiosa
lo si può comparare con l’erompere di una sorgente di acqua viva da una roccia,
che dopo un po’ di tempo si gela nell’inverno delle abitudini. La dottrina
allora si gela nel dogmatismo, la morale o l’etica si gela nel moralismo, il
rituale si gela in ritualismo. Per tutte le religioni sussiste il pericolo dopo
un po’ di tempo dell’irrigidimento della trasmissione.
Possiamo fare qualcosa
che abbia l’effetto opposto a questo irrigidimento? Sì. Abbiamo sempre nuove
occasioni di ritornare alla nostra particolare esperienza mistica, al calore di
questa esperienza che scalda il cuore e così possiamo sbrinare dal di dentro la
struttura congelata. Ma la struttura non è solo un impedimento, può anche darci
molto. Comprendo pienamente se qualcuno vuole lasciarsi alle spalle e rifiuta
le religioni così come si mostrano oggi. Ma per mia esperienza devo dire:
queste strutture possono anche darci
molto, per esempio sostegno, stabilità, forza, connessione con il passato,
guida nella giovinezza e nell’infanzia. Queste tradizioni sono difficili da
sostituire.
Ma dobbiamo
continuamente rinnovarle, scaldarle e ravvivarle dal cuore. Il cuore di ogni
religione è la religione del cuore.
Per questo non possiamo
aspettarci dalle religioni che vi entriamo come in un treno e che ci portino
come di per sé ad una meta agognata. Invece di essere mossi dobbiamo muoverci
noi stessi.
6. Visioni di Dio
Che cosa impedisce che
il Divino cresca in noi? Molto spesso è l’immagine di Dio o la visione di Dio
che ci propone una certa religione, che ci ha proposto la nostra religione.
Sarebbe compito della religione sostenere la spiritualità, invece spesso le
intralcia la via. La nostra visione del mondo, come la nostra visione di Dio, è
fatta di molte supposizioni che non sono comprese in una visione d’insieme né
vengono messe in dubbio, eppure la nostra visione del mondo e di Dio è decisiva
per la nostra vita, sia in ciò che accettiamo che in ciò che rifiutiamo. La
nostra visione di Dio oggi è influenzata in modo decisivo dalla nostra idea che
Dio sia separato da noi.
Le esperienze mistiche
rendono “più”, le religioni insegnano. Nell’insegnamento interpretiamo il “più”
che abbiamo incontrato nell’esperienza mistica. Questo “Più” è stato molto
spesso interpretato ed esercitato come potere. Nell’esperienza mistica
incontriamo qualcosa di potente, qualcosa di superpotente. Questa potenza le
religioni l’hanno spesso presentata come un dominio. Dio allora è l’altro che
ci domina ed è separato da noi.
In questo contesto
dobbiamo vedere anche il significato che diamo al peccato. Originariamente
peccato, in tedesco, significava deviare e separarsi1. Peccato e separarsi qui
hanno una stessa radice. Il peccato ci estranea dal nostro vero sé e
dall’esperienza del “Più”. Nelle dottrine delle religioni al peccato sempre più
spesso è stato dato un significato giuridico, come se uno che ha il potere
sedesse là in alto. Così il peccato diventa una colpa e dev’essere punita.
Noi possiamo vedere
questa colpa anche dalla prospettiva dello sviluppo storico, come ciò che nel
nostro sviluppo personale non ci ancora è riuscito. Dall’esperienza del peccato
cresce poi lo stimolo a cercare ciò che ancora non ci è riuscito per poi
realizzarlo.
L’idea di un Dio che ha
potere su di noi ci allontana anche dal contenuto originario dei rituali. Ci
allontana dal servizio a Dio come servizio alla vita attraverso la celebrazione
ed anche attraverso il lavoro. Il servizio a Dio allora assomiglia piuttosto ad
un cerimoniale di corte. Queste falsificazioni della visione di Dio ci
impediscono di comprendere sempre più profondamente questo “Più”, di
realizzarlo, volendolo sempre di più, e di celebrarlo in modo sempre più
gioioso e creativo.
7. Vivere in
gratitudine
La domanda ora è
questa: come possiamo stimolare la nostra crescita spirituale? La risposta è a
portata di mano. Correggendo e rinnovando continuamente la nostra visione di
Dio attraverso la viva esperienza di Dio. Noi abbiamo quest’esperienza di Dio.
Abbiamo quest’esperienza del “Più”. Ci è sempre accessibile. Dobbiamo solo
coltivarla. Come facciamo esperienza di questo “Più”? Leggo al riguardo alcune
righe di Rilke, tratte dai Sonetti ad Orfeo:
Eppure l’esistenza per
noi è ancora incantata; eppure in cento posti è ancora origine. Un gioco
di pure forze che non
riesce a toccare nessuno che non si inchini e le apprezzi meravigliato.
Queste righe valgono
ancor oggi, sebbene questa poesia inizi con le parole: Tutto ciò ch’è stato
raggiunto è minacciato dalla macchina.
Comunque vale: in molti
posti l’esistenza è ancora incantata, è per noi ancora origine, un gioco di
molte forze, che non può toccare nessuno che non si inginocchi ed ammiri
meravigliato.
Possiamo lasciarci
coinvolgere da queste forze. Esiste una via spirituale in questa direzione, che
personalmente sento più vicina delle altre. La definisco “vivere in
gratitudine”, semplicemente questo. Diventiamo consapevoli che questo “Più” è
l’essenza di tutto ciò che c’è, la fonte di tutto. Diciamo sempre: c’è questo e
c’è questo - tutte cose che l’essenza dà. Tutto ciò che c’è, c’è in quanto lo
dà l’essenza. Questa essenza di per sé non è qualcosa, ma è il non, da cui
tutto fluisce. È la sorgente divina, è la fonte madre, il fondo In tedesco
peccato è “Sünde” che ha una radice simile a “sondern”=separare. In italiano
c’è una correlazione simile tra errore ed errare, dove per errore si può
intende un deviare dalla verità, o dal vero Sé.
2 Nel testo tedesco
”Es”. Il seguente gioco di parole di David Steindl Rast su “es gibt das”, che
letteralmente significa “c’è questo”, dove “es gibt”=c’è, essendo formato dal
verbo “geben”=dare può essere letto anche come l’essenza dà, non è
riproducibile in italiano. madre di tutto ciò che c’è. È il mistero dal quale
veniamo e verso il quale andiamo. Nei confronti di questa sorgente ci viviamo
come un regalo. Anche noi abbiamo qualcosa che l’essenza dà. Veniamo donati a
noi stessi. Non ci siamo comprati, non abbiamo trattato per averci. Nei momenti
peggiori forse non ci vogliamo. Ma che lo vogliamo o meno, ci veniamo regalati.
Nei confronti di questo regalo c’è solo una risposta giusta ed appropriata:
questa è gratitudine. In questa gratitudine troviamo sempre nuovo ciò che c’è,
quel che l’essenza dà: la vita, l’amore, il sapere, la gioia, la musica.
Prendere tutto questo così è il nostro modo di dire grazie. Il nostro grazie
rifluisce al non, all’essenza che tutto dà. Come teniamo viva in noi questa
corrente? Semplicemente ringraziando, semplicemente vivendo l’istante. Per
esempio, essendo consapevoli quando apriamo il rubinetto dell’acqua quale dono
questo sia per noi. O essendo consapevoli quando accendiamo la luce quale dono
sia per noi anche questo. Se ci capita di vivere in zone in cui non c’è né
acqua buona né la luce elettrica, diventiamo ben consapevoli che doni siano.
Vivere nella
consapevolezza di vedere le altre persone e la natura come un dono è quel che
intendo per vivere in gratitudine.
Ora Le leggo ancora una
breve poesia di Rilke, poiché inizia con la parola “silenzio” e finisce con la
parola “grazie”. Indica che riusciamo a vivere in gratitudine solo se ci
lasciamo coinvolgere dal silenzio.
Se almeno una volta ci
fosse veramente silenzio.
Se ciò ch’è casuale e
approssimativo ammutolisse e il ridere dei vicini, se il fruscio che fanno i
miei sensi non mi impedisse così tanto il risveglio, -:
Allora potrei pensarti
in un pensiero mille volte maggiore, fino al tuo limite e possederti (solo per
la durata di un pensiero) per ridonarti a tutta la vita
come un grazie. Questa
è una poesia al “Più”, una preghiera al “Più”.
8. Preghiera
Nella preghiera si
uniscono tre ambiti. All’inizio sta il silenzio, la preghiera del silenzio, sul
quale non possiamo dire nulla. Ci è solo concesso lasciarci sprofondare in
questo silenzio, per incontrare in essa il “Più”. Quanto più sprofondiamo, più
e sempre più, tanto più facciamo esperienza di noi stessi in questo “Più”. La
capacità di pregare così ce l’ha ciascuno di noi.
Il secondo ambito di
questa preghiera è più familiare a noi occidentali. Lo possiamo descrivere come
un “vivere secondo la parola di Dio”. Con ciò diciamo che tutto ciò che c’è è
parola. Se c’è, parla. Il non si esprime in tutto ciò che esiste. Tutto ciò che
esiste è dunque parola divina. Possiamo farci coinvolgere da questa parola in
molteplici modi.
Dovunque ci lasciamo coinvolgere
dalla parola, da ciò che c’è, e lo trattiamo con riverente rispetto,
rispondiamo con un sì alla parola e diciamo questo sì incondizionato. Sì, ci
sono. Poi questa parola ci nutre. Ogni parola può nutrirci, se rispondiamo in
questo modo. Il terzo ambito, che per molti di noi è relativamente sconosciuto,
sebbene ci viviamo dentro in continuazione, si chiama meditatio in actione:
trovare Dio nel fare. Troviamo costantemente Dio nel fare. Pensi alle madri,
pensi agli insegnanti. Troviamo costantemente Dio nel fare. Il fare è un mondo
della preghiera, un mondo della preghiera curata da secoli. Dunque, trovare il
“Più”.
Qui si vede che effetto
guaritore può avere una tale penetrazione nel “Più”. Quanto guarisca cercare di
comprendere sempre più questo “Più”, volendolo sempre più realizzare,
celebrandolo sempre più gioiosamente e creativamente in una festa a cui
partecipano tutto il mondo e tutte le religioni.
9. La visione condivisa
di Dio
Chiunque conosca anche
solo un poco il Buddismo, sa quanto nel buddismo sia centrale il silenzio e il
tacere. Studiando il buddismo a volte, nei discorsi con il mio maestro, se mi
sembrava di aver capito qualcosa gli chiedevo: “E’ così?” Al che egli sempre
iniziava a ridere e diceva: “E’ completamente giusto. Peccato però che tu lo
dica.”
Nel Cristianesimo
dobbiamo dirlo. Apparteniamo alle tradizioni dell’amen, al Giudaismo, al
Cristianesimo, all’Islam. Apparteniamo a quelli che fanno riferimento alla
parola. La parola è anche un modo di incontrare il “Più”. Questo è il nostro
modo. Il terzo modo è quello del comprendere. Questo è l’ambito dell’Induismo.
Nell’Induismo non si tratta in prima linea della né parola né del tacere, ma si
tratta di comprendere. Yoga significa collegare. Yoga significa comprendere. La
pratica spirituale dell’induismo connette la parola ed il silenzio nel
comprendere. Cosa significa qui comprendere? Che noi ci dedichiamo alla parola
che viene dal silenzio in modo tale che ci porti là da dove viene: nel
silenzio. Se ci dedichiamo alla parola e ci lasciamo portare dalla parola nel
silenzio, comprendiamo.
Nella nostra “peak
experience”, nella nostra esperienza mistica, per tornare ad essa, diciamo:
l’essenza è questo. È questo quello che aspettavamo. Come se tutta la nostra
vita non avessimo aspettato altro che questo. L’essenza è questo cha accade
ora. Sottolineiamo “questo”. Questo è la parola. Qualsiasi cosa ci sia: è
questo. I Buddisti dicono: questo è l’essenza. E anche questo è l’essenza. E
anche questo.
L’essenza è tutta
contenuta nel silenzio, nel nulla, da cui tutto proviene.
Gli Indù dicono: perché
litigate? Questo è l’essenza. Solo così la comprendiamo.
Così quindi posso, e
con questa frase vorrei concludere, immaginarmi le religioni come un girotondo
in cui tutti balliamo. “Questo è l’essenza”, dovunque vogliamo porre l’accento,
gli Induisti, i Buddisti, i Cristiani, gli Ebrei, i Mussulmani, tutti, incluse
le religioni della Natura. Balliamo tutti lo stesso ballo. Il significato di
questo ballo non lo si può percepire da fuori. Poiché da fuori vediamo che i
movimenti vanno in direzioni opposte.
Ma se ci teniamo per
mano e balliamo insieme agli altri, sentiamo l’unità in questo ballo.
Abbiamo bisogno di
condividere questo ballo oggi nel mondo. In esso Dio non è più separato da noi.
In esso facciamo esperienza di Dio in noi, e noi in Dio. Questa visione di Dio
ci collega tutti.
splendido.
RispondiEliminagrazie marco !!!
eugenio
fondazioneacquarius@libero.it
Purtroppo il testo è, almeno per me, quasi illeggibile a causa dei continui "a capo" forzati...
RispondiEliminariportandolo da un pdf viene così,sarò io che sono poco esperto....
RispondiEliminaOra andiamo bene. Testo interessante su cui riflettere...
RispondiEliminagrazie per la formattazione....si dice così?
RispondiEliminaEsatto! Niente di che. Riflettere invece sul documento non è così facile e veloce...
RispondiElimina