lunedì 5 febbraio 2018


ecco un testo per un convegno  cui parteciperò il 12 febbraio....a Vignola.....


Spesso, durante conferenze o incontri, mi viene chiesto: “Cosa è il Buddhismo? È una religione?” E io, pazientemente, ripeto che, nella sua essenza, non può essere definito tale.
Dovrei rispondere, come l’antico maestro zen: "il Buddhismo è mangiare quando si mangia,dormire quando si dorme!”. Temo però che molti non capirebbero.
Già il termine Buddhismo è impreciso e disorientante perché, nella nostra lingua, significa: una tradizione che deriva dal Buddha, anzi una “dottrina”, mentre il Buddha ha sempre chiamato il proprio insegnamento “DHARMA”, parola dai vari significati ma che in questo caso possiamo tradurre come “legge naturale e universale”.
Il Buddha ci insegna quindi ad armonizzarci, attraverso la meditazione, alla legge naturale del cosmo, a godere serenamente di tutto ciò che c’è, gioie e dolori, totalmente aperti nei confronti di ogni aspetto della vita.
In questa ottica la tradizione che deriva dal Buddha è più affine ad una psicologia o a una filosofia esistenziale che non ad una religione, almeno come la intendiamo in occidente.
A livello popolare vi sono poi anche atteggiamenti e pratiche più “religiose” ma sono spesso di derivazione pre-buddhista e comunque hanno a che fare con un livello essoterico, e non hanno nulla a che spartire con gli insegnamenti più autentici e profondi.
Il Dharma del Buddha è un insegnamento totalmente umano teso ad insegnare agli uomini a divenire se stessi, a realizzarsi nella propria umanità con le proprie forze, senza alcun rapporto con un Dio personale che non viene mai né affermato né negato.
Hirata Roshi( grande maestro zen della tradizione Rinzai), ad un incontro interreligioso con monaci cattolici, dopo aver ascoltato il discorso di un abate benedettino disse: “Siamo d’accordo su tutto, solo che noi pensiamo che, se Dio esiste, ha già fatto la sua parte.”
Il problema di Dio non si pone, possiamo crederci oppure no, è inincidente, perché il vero mistero è la sofferenza di cui è permeato il vivere e con cui dobbiamo fare i conti trovando un modo per integrarla nella nostra percezione della realtà, imparando a gestirla.
Spesso di pensa che il fine della meditazione Buddhista sia il Nirvana, la liberazione dalla sofferenza, mentre invece si tratta di una liberazione “nella sofferenza”.
Accettando la sofferenza, l’impermanenza, la mortalità e percependo l’intrinseca perfezione della vita, imparando un approccio esistenziale “senza troppo attaccamento e senza troppa avversione” si può giungere ad una vera fruizione dell’essere.
Nulla può “salvarci” dalla nostra condizione umana, nessun Dio o Salvatore, solo un addestramento mentale può permetterci di vivere pienamente liberi da quella mole di sofferenza psicologica che una mente non educata costruisce in continuazione.
Nell’insegnamento Buddhista non vi è nulla di “eccezionale”, il Dharma non è nulla di speciale, solo mangiare, dormire, camminare, … e farlo completamente, totalmente, in piena consapevolezza, connessi con ciò che c’è qui ed ora.
Anche il problema dell’aldilà, nell’insegnamento autentico, non si pone. La diffusa credenza nella reincarnazione è derivata dalla dottrina Hindu e, francamente, ha ben poco a che spartire con l’idea Buddhista del non-io (cioè che non c’è un’anima individuale, un io spirituale) che si cerca di sfumare con un nebuloso concetto di continuum mentale.
Sogyal Rimpoche( maestro della tradizione Niyngmapa), a fronte dell’ennesima domanda sulla reincarnazione, disse che credere in una qualche forma di continuazione della vita è un bel modo per non prendere sul serio la morte.
Si nasce, si vive, si muore: questi sono i fatti, possiamo solo cercare di vivere al meglio possibile e di morire sazi di vita, tutto qui!
Se quindi il Buddhismo non è una “religione” anche il tema dell’etica cambia: in ultima analisi non esiste nessun codice morale assoluto. Chi vive in piena consapevolezza è totalmente libero, anche dai vincoli morali (che sono vincoli relativi) perché spontaneamente sa come adattarsi al fluire della vita scegliendo, di volta in volta, l’agire più idoneo alla bisogna.
Certo, ai livelli meno levati, si consigliano i cinque precetti:
  1. astenersi dall'uccidere o dal nuocere agli esseri viventi;
  2. astenersi dal rubare;
  3. astenersi dall'erronea condotta sessuale (provocando sofferenza ad altri);
  4. astenersi dall'uso di un eloquio volgare o offensivo e dal mentire;
  5. astenersi dall'alcool o dalle sostanze che alterano la lucidità mentale;
che sono indicazioni per evitare di fare danno a se stessi o agli altri, ma che possono essere superate man mano che diventiamo più saggi e consapevoli.
Nulla, in ultima istanza, è vietato se siamo totalmente consapevoli e conseguentemente compassionevoli, ne sono esempio i maestri della saggezza folle delle tradizioni Dzogchen e Zen.
Dobbiamo sempre ricordare che viviamo contemporaneamente nel relativo e nell’assoluto: nel relativo l’etica è uno strumento di convivenza sociale importante, nell’assoluto è priva di ogni sostanza.
E’ fondamentale  praticare i cinque precetti fintanto che non si è fatta esperienza del Rigpa( dell’assoluto) perché è facile, nell’inconsapevolezza, confondere libertà e libertinaggio , provocando caos sociale e sofferenza, a noi e agli altri.
Il saggio è colui che sa vivere del relativo rimanendo però nell’orizzonte dell’assoluto, che gioca i ruoli e i limiti del relativo essendone, però, intimamente libero.
Il Buddha voleva che diventassimo Buddha noi stessi (Buddha significa RISVEGLIATO) e non dei Buddhisti, dei fedeli senza acume, tant’è che le sue ultime parole furono: SIATE LUCE A VOI STESSI.

Un buon praticante del Dharma non deve seguire pedissequamente insegnamenti, pratiche o etiche, deve trovare se stesso e il proprio autentico modo di essere nel mondo senza essere del mondo, libero da ogni schematismo e dogmatismo, per questo se incontra il Buddha è meglio che lo uccida, e se sente parlare di lui passa oltre, per non attaccarsi a nulla, neppure al Buddha.

1 commento:

  1. assolutamente d'accordo senza se e senza ma. Succede però che nel mondo ogni intuizione chiamiamola spirituale, per comodità, si confronta nel tempo con quei bisogni con cui da sempre l'uomo si trova a fare i conti: sentirsi protetto, rispondere ai perchè universali etc.. ed ecco che si trasforma in religione, in fede, in credenza i cui contenuti sono determinati in gran parte dalla cultura nella quale la "prima intuizione" va ad insediarsi.La storia insegna che sempre questo avviene e con ciò dobbiamo misurarci se vogliamo essere pluralisti nel vero senso del termine e non esclusivisti con la conseguenza di innestare processi di odio e discordia. Il non confrontarsi con questi bisogni umani che poi abbiamo comunque tutti in varia misura, pensare di avere "sgamato" tutto nel proprio sangha e di non avere bisogno di confronto porta nel caso del buddhismo o a un edonismo in cui la compassione diventa parola senza contenuti o a chiusura e autoreferenzialità compiaciuta. a mani unite Roberto Anshin

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