domenica 19 novembre 2023

 LIBERIAMOCI DAL DIO DELL’EGO

Non esiste epoca, stagione o anche solo momento dell’avventura

umana che, risvegliandosi alla consapevolezza e all’onestà intellettuale (la forma più preziosa di onestà, da cui procedono tutte le altre), non abbia provato l’amara esperienza di essere in trappola. Le

mitologie, le religioni, le filosofie ne danno ampia attestazione. Gli

ambiti vitali, proprio perché danno vita e risultano indispensabili,

legano a sé e quindi intrappolano. Nello stesso momento in cui ti

danno vita, ti tolgono libertà. Tu non ne puoi fare a meno, e loro ti

imprigionano dentro di sé.

Possiamo vivere senza l’amore? La risposta ovviamente è no, ma

l’innamoramento e l’amore sono non di rado un assillo, un travaglio, un incubo da cui non si riesce a liberarsi. Lo mostrano Ovidio

con Corinna, e tutta la letteratura universale che attesta l’assonanza,

esistenziale oltre che linguistica, del binomio amore-dolore.

Shakespeare fa parlare così Romeo rivolto a se stesso mentre sente

divampare l’amore per Giulietta: «Torna indietro, o inanimata argilla del mio corpo, e ritrova il tuo centro». La centratura più entusiasmante ma al contempo il decentramento più indebolente, la gioia

più intima ma al contempo la sofferenza più penetrante, la generosità senza confini ma al contempo un astio altrettanto illimitato,

provengono proprio da quel sentimento incontrastabile che chiamiamo amore.

Possiamo vivere senza la famiglia, o quella d’origine, o quella che ci

siamo formata, o quella che vorremmo formarci, sia pure talora in

forma diversa da quella tradizionale? No, c’è una tensione insopprimibile verso la vita insieme ad altri esseri umani.

Eppure, quanta prigionia proviene dalla convivenza degli esseri

umani tra loro: per i figli, anzitutto, la cui crescita si compie come

un progressivo cammino di autonomia denominabile guerra d’indipendenza; poi per i genitori, la cui prigionia è persino maggiore

dato che si ritrovano da un lato inevitabilmente legati ai figli e dall’altro legati ancora agli anziani genitori sempre più bisognosi di

aiuto, intrappolati in una manovra a tenaglia perfettamente riuscita.

E quell’anello al dito? A chi non è capitato di percepirlo talora come

una palla al piede, sentendosi proprio come quei galeotti di un

tempo a cui veniva impedito il movimento con una sfera di piombo

alla caviglia? Così ci si ritrova, volenti o nolenti (ma il più delle volte nolenti), a costituire una trappola gli uni per gli altri: a percepire

il proprio marito, la propria moglie, i figli, la madre, il padre, gli altri eventuali parenti, persino gli amati animali domestici, come una

trappola.

Senza calcolare che le trappole esteriori e più ancora interiori che ci

provengono dalla famiglia sono così radicate in noi da passarci la

vita dentro anche quando la famiglia non c’è più, o ce n’è un’altra.

Non sappiamo dove si trovano, ma ne avvertiamo persistentemente

il dolore che proviene dai meccanismi che le fanno regolarmente

scattare.

E il sapere? Non ci sono dubbi che esso è lo strumento più efficace

di liberazione, ma è altrettanto vero che può trasformarsi abbastanza facilmente in una catena tra le più pesanti. Che il sapere liberi è

del tutto intuitivo, ognuno vede da sé come l’istruzione e la conoscenza dissipino la nebbia dell’ignoranza che impedisce di nominare la realtà per quello che è e che fa rimanere in balìa del pensiero

altrui. Quando si sa, e si è in grado di esprimere quello che si sa, si è

in possesso dell’arma principale per difendere la propria autonomia. Volendo il bene dei suoi ragazzi, e vedendo l’ignoranza a cui

sarebbero stati destinati per il fatto di crescere senza istruzione nelle

campagne del dopoguerra, don Milani, ben più che in chiesa, decise

di condurli quotidianamente in classe e fondò la scuola di Barbiana.

Proprio per il suo potere cognitivo, però, il sapere può generare in

chi lo possiede un atteggiamento di superbia e di chiusura che è

una delle peggiori trappole della mente. Ci sono persone che ritenendo di sapere tutto non ascoltano autenticamente più niente e

nessuno, se non quanto basta per criticare e confutare l’interlocutore e così esibire vittoriosamente il proprio potere intellettuale. Senza

sapere si è preda dell’ignoranza, con il sapere si è a forte rischio di

supponenza.

Il lavoro: anche solo per meri motivi economici non si può vivere

senza, ma, quando si lavora, capita non di rado di sentirsi nel posto

sbagliato, di provare la sgradevole sensazione di essere nulla più di

uno strumento, un limone che altri stanno spremendo, in alcune

circostanze addirittura uno schiavo alla catena.

Oggi il fenomeno della cosiddetta Great Resignation o Grandi dimissioni attesta esattamente questo malessere: si lavora perché non se

ne può fare a meno, ma, non appena se ne può fare a meno, ci si

dimette dal lavoro per ritornare padroni di sé. Per fare che cosa,

però? In realtà, se non si ha un’occupazione tramite cui costruire

qualcosa nella vita anche a prescindere dalla retribuzione (perché,

potendoselo permettere, si può lavorare anche per puro spirito di

volontariato), viene a mancare qualcosa di essenziale nella vita.

Anzi, io penso che una delle più grandi fortune consista proprio nel

trovare un lavoro che sia una grande passione che ci faccia lavorare

intensamente. Se infatti lavorare stanca, è altresì vero che la stanchezza maturata facendo il lavoro che si ama è bellissima, appagante, di certo molto meglio della noia dell’assenza di attività.

È possibile continuare così per ogni altro ambito vitale: la passione

politica, la passione sportiva, il gioco, il desiderio di viaggiare, gli

amici, la religione... Tutto ciò che veramente riempie la nostra vita è

al contempo causa di prigionia perché limita, e talora toglie, la libertà. Ne viene che di ogni persona o esperienza o ambito veramente

importante siamo costretti a dichiarare sempre di nuovo: Nec sine te,

nec tecum, vivere possum.

Per allentare i morsi della trappola e iniziare a intravedere l’itinerario di liberazione, e magari percorrerlo con qualche piccolo passo, ci

aspetta oggi un compito diverso, per molti versi opposto rispetto a

quello intrapreso dalla modernità: la modernità aveva dovuto superare Dio per affermare l’Io, oggi il nostro compito consiste nel superare l’Io per tornare ad affermare Dio. O, per meglio dire: il Divino,

l’Indisponibile, l’Assoluto, il Gratuito, l’Inconoscibile, l’Apofatico, il

Sacro, il Solenne, il Mistero, il Silenzio. È l’unico modo per uscire,

almeno con la mente e con il cuore, dalla trappola.

Già nel 1966 Martin Heidegger, nella celebre intervista al settimanale tedesco «Der Spiegel» pubblicata come da accordi all’indomani

della sua morte avvenuta dieci anni dopo, aveva dichiarato: «Ormai

solo un Dio ci può salvare». Da che cosa il filosofo ricercava la salvezza? Dalla tecnica. Per lui infatti la tecnica nella sua essenza «è

qualcosa che l’uomo di per sé non è in grado di dominare», ma da

cui piuttosto è dominato: «La tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla Terra [...] Tutto ciò che resta sono problemi di pura

tecnica». Con questa conseguenza: «Non è più la Terra quella su cui

oggi l’uomo vive». Parole che oggi, con le menti sempre più intrappolate nelle infinite connessioni della rete e sempre più distanti dal

mondo reale, e con la Terra sempre più antropizzata e devastata,

non si presentano più come un giudizio filosofico ma come la lampante constatazione di un dato di fatto.

I redattori del settimanale tedesco chiesero poi che cosa po- tessero

fare il singolo individuo e la filosofia per contrastare questa situazione intrappolante, ricevendo la seguente risposta: «Se posso rispondere brevemente e forse un po’ grossolanamente, ma comunque in base a una lunga meditazione del problema: la filosofia non

potrà produrre nessuna immediata modificazione dello stato attuale del mondo. E questo non vale soltanto per la filosofia, ma anche

per tutto ciò che è mera intrapresa umana. Ormai solo un Dio ci

può salvare». Cosa possiamo fare dunque? Ecco la risposta di Heidegger: «Ci resta, come unica possibilità, quella di preparare nel

pensare e nel poetare una disponibilità all’apparizione del Dio o all’assenza del Dio nel tramonto».

L’unica possibilità di uscire dalla trappola, dice Heidegger, è renderci disponibili tramite il pensiero e la poesia all’apparizione nella

nostra esistenza di ciò che poco più avanti egli denomina «l’altro

pensiero», e a cui tradizionalmente ci si riferisce dicendo Dio, o anche divino. Tale apparizione può anche non avvenire, ma non è decisivo: se attesa, libera l’Io dal suo delirio di onnipotenza e ne dilata

e ne ripulisce lo sguardo.

Vito Mancuso, La Stampa 14 novembre 2023

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