ecco un testo per un convegno cui parteciperò il 12 febbraio....a Vignola.....
Spesso,
durante conferenze o incontri, mi viene chiesto: “Cosa è il Buddhismo? È una
religione?” E io, pazientemente, ripeto che, nella sua essenza, non può essere
definito tale.
Dovrei
rispondere, come
l’antico maestro zen: "il Buddhismo è mangiare quando si mangia,dormire
quando si dorme!”. Temo però che molti non capirebbero.
Già
il termine Buddhismo è impreciso e disorientante perché, nella nostra lingua,
significa: una tradizione che deriva dal Buddha, anzi una “dottrina”, mentre il
Buddha ha sempre chiamato il proprio insegnamento “DHARMA”, parola dai vari
significati ma che in questo caso possiamo tradurre come “legge naturale e
universale”.
Il
Buddha ci insegna quindi ad armonizzarci, attraverso la meditazione, alla legge
naturale del cosmo, a godere serenamente di tutto ciò che c’è, gioie e dolori,
totalmente aperti nei confronti di ogni aspetto della vita.
In
questa ottica la tradizione che deriva dal Buddha è più affine ad una
psicologia o a una filosofia esistenziale che non ad una religione, almeno come
la intendiamo in occidente.
A
livello popolare vi sono poi anche atteggiamenti e pratiche più “religiose” ma
sono spesso di derivazione pre-buddhista e comunque hanno a che fare con un livello
essoterico, e non hanno nulla a che spartire con gli insegnamenti più autentici
e profondi.
Il
Dharma del Buddha è un insegnamento totalmente umano teso ad insegnare agli
uomini a divenire se stessi, a realizzarsi nella propria umanità con le proprie
forze, senza alcun rapporto con un Dio personale che non viene mai né affermato
né negato.
Hirata Roshi( grande maestro zen della tradizione
Rinzai), ad un incontro interreligioso con monaci cattolici, dopo aver
ascoltato il discorso di un abate benedettino disse: “Siamo d’accordo su tutto,
solo che noi pensiamo che, se Dio esiste, ha già fatto la sua parte.”
Il
problema di Dio non si pone, possiamo crederci oppure no, è inincidente, perché
il vero mistero è la sofferenza di cui è permeato il vivere e con cui dobbiamo
fare i conti trovando un modo per integrarla nella nostra percezione della
realtà, imparando a gestirla.
Spesso
di pensa che il fine della meditazione Buddhista sia il Nirvana, la liberazione
dalla sofferenza, mentre invece si tratta di una liberazione “nella
sofferenza”.
Accettando
la sofferenza, l’impermanenza, la mortalità e percependo l’intrinseca
perfezione della vita, imparando un approccio esistenziale “senza troppo
attaccamento e senza troppa avversione” si può giungere ad una vera fruizione
dell’essere.
Nulla
può “salvarci” dalla nostra condizione umana, nessun Dio o Salvatore, solo un
addestramento mentale può permetterci di vivere pienamente liberi da quella
mole di sofferenza psicologica che una mente non educata costruisce in continuazione.
Nell’insegnamento
Buddhista non vi è nulla di “eccezionale”, il Dharma non è nulla di speciale,
solo mangiare, dormire, camminare, … e farlo completamente, totalmente, in
piena consapevolezza, connessi con ciò che c’è qui ed ora.
Anche
il problema dell’aldilà, nell’insegnamento autentico, non si pone. La diffusa
credenza nella reincarnazione è derivata dalla dottrina Hindu e, francamente, ha
ben poco a che spartire
con l’idea Buddhista del non-io (cioè che non c’è un’anima individuale, un io spirituale) che si
cerca di sfumare con un nebuloso concetto di continuum mentale.
Sogyal Rimpoche( maestro della tradizione Niyngmapa),
a fronte dell’ennesima domanda sulla reincarnazione, disse che credere in una
qualche forma di continuazione della vita è un bel modo per non prendere sul
serio la morte.
Si
nasce, si vive, si muore: questi sono i fatti, possiamo solo cercare di vivere
al meglio possibile e di morire sazi di vita, tutto qui!
Se
quindi il Buddhismo non è una “religione” anche il tema dell’etica cambia: in
ultima analisi non esiste nessun codice morale assoluto. Chi vive in piena
consapevolezza è totalmente libero, anche dai vincoli morali (che sono vincoli
relativi) perché spontaneamente sa come adattarsi al fluire della vita
scegliendo, di volta in volta, l’agire più idoneo alla bisogna.
Certo, ai livelli meno levati, si consigliano i cinque
precetti:
- astenersi
dall'uccidere o dal nuocere agli esseri viventi;
- astenersi
dal rubare;
- astenersi
dall'erronea condotta sessuale (provocando sofferenza ad altri);
- astenersi
dall'uso di un eloquio volgare o offensivo e dal mentire;
- astenersi
dall'alcool o dalle sostanze che alterano la lucidità mentale;
che sono indicazioni per evitare
di fare danno a se stessi o agli altri, ma che possono essere superate man mano
che diventiamo più saggi e consapevoli.
Nulla, in ultima istanza, è
vietato se siamo totalmente consapevoli e conseguentemente compassionevoli, ne
sono esempio i maestri della saggezza folle delle tradizioni Dzogchen e Zen.
Dobbiamo sempre ricordare che
viviamo contemporaneamente nel relativo e nell’assoluto: nel relativo l’etica è
uno strumento di convivenza sociale importante, nell’assoluto è priva di ogni
sostanza.
E’ fondamentale praticare i cinque precetti fintanto che non
si è fatta esperienza del Rigpa( dell’assoluto) perché è facile,
nell’inconsapevolezza, confondere libertà e libertinaggio , provocando caos
sociale e sofferenza, a noi e agli altri.
Il saggio è colui che sa vivere
del relativo rimanendo però nell’orizzonte dell’assoluto, che gioca i ruoli e i
limiti del relativo essendone, però, intimamente libero.
Il Buddha voleva che diventassimo
Buddha noi stessi (Buddha significa RISVEGLIATO) e non dei Buddhisti, dei
fedeli senza acume, tant’è che le sue ultime parole furono: SIATE LUCE A VOI
STESSI.
Un buon praticante del Dharma non
deve seguire pedissequamente insegnamenti, pratiche o etiche, deve trovare se
stesso e il proprio autentico modo di essere nel mondo senza essere del mondo, libero
da ogni schematismo e dogmatismo, per questo se incontra il Buddha è meglio che
lo uccida, e se sente parlare di lui passa oltre, per non attaccarsi a nulla,
neppure al Buddha.
assolutamente d'accordo senza se e senza ma. Succede però che nel mondo ogni intuizione chiamiamola spirituale, per comodità, si confronta nel tempo con quei bisogni con cui da sempre l'uomo si trova a fare i conti: sentirsi protetto, rispondere ai perchè universali etc.. ed ecco che si trasforma in religione, in fede, in credenza i cui contenuti sono determinati in gran parte dalla cultura nella quale la "prima intuizione" va ad insediarsi.La storia insegna che sempre questo avviene e con ciò dobbiamo misurarci se vogliamo essere pluralisti nel vero senso del termine e non esclusivisti con la conseguenza di innestare processi di odio e discordia. Il non confrontarsi con questi bisogni umani che poi abbiamo comunque tutti in varia misura, pensare di avere "sgamato" tutto nel proprio sangha e di non avere bisogno di confronto porta nel caso del buddhismo o a un edonismo in cui la compassione diventa parola senza contenuti o a chiusura e autoreferenzialità compiaciuta. a mani unite Roberto Anshin
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